Nei suoi ultimi anni, padre David Maria Turoldo (1916-1992) aveva lungamente meditato, o meglio vissuto nella propria persona, Giobbe e Qohelet, ed era giunto per una via tutta sua al riv, la contesa ebraica con Dio. E in tale prospettiva ermeneutica leggeva la domanda del Padrenostro. Viene un momento, nella vita di ciascuno e nella coscienza delle epoche, che questa domanda diventa essa stessa una tentazione, e bisogna affrontarla. Ma c’è anche chi, allora, vuole sfuggirvi come Marcione, che parafrasava:
“Non permettere che siamo indotti in tentazione”, o come alcuni esegeti e liturgisti odierni, che propongono “non abbandonarci alla tentazione”, considerandola traduzione più filologicamente corretta (o più “tranquillizzante”?).
La preoccupazione di Marcione (e di Tertulliano, ma con presupposti diversi) si comprende: per lui andava benissimo che il Dio dell’Antico Testamento tentasse Abramo e Giobbe, in quanto potenza negativa; ma non poteva accettare questa tentazione dal Dio di Gesù. Proprio la posizione di Marcione ci aiuta a impostare il problema ermeneutico della frase del Pater nel senso che una religione dualistica non ha difficoltà, anzi ha l’esigenza, di esonerare il Dio buono dal ruolo di tentatore. Ma il monoteismo ci pone, con una severità di cui le anime pie non si rendono conto, alcune domande: da chi viene la tentazione? Se viene dal Satana, da dove viene il Satana? Se la tentazione presuppone la libertà, donde viene il male come possibilità di scelta negativa? Perché Dio tenta Abramo di cui – in quanto Dio – già sapeva la risposta? O non la sapeva (“ora so che tu temi Dio”, Gen 22,12)?
Le domande si possono ulteriormente moltiplicare, ma sono riducibili a una sola: se noi chiediamo a Dio di non tentarci (o – che in fondo è la stessa cosa – di non permettere che siamo tentati), quale Dio è il Dio del Pater? La questione resta uguale anche se, con molti esegeti, pensassimo che la richiesta del Pater non si riferisce tanto ai singoli, quanto ai tempi di persecuzione e di buio per la chiesa. Su questo Dio, la Bibbia ci offre almeno due risposte indirette: la prima è in Genesi 22, la seconda in Giobbe 1-2. “Dopo queste cose (o “parole”), Dio tentò Abramo” (Gen 22,1). Anche qui, come nel caso di Giobbe, l’esegesi rabbinica suppone una sfida del Satana a Dio, leggendo devarim come “parole” (entrambe le letture sono possibili): “Alcuni nostri rabbini dicono (Sanhedrin 89 b). Dopo le parole di Satana, che accusava [Abramo] e diceva: di tutto il banchetto che fece Abramo, non ti ha offerto un solo toro o un solo montone. Gli rispose [Dio]: Ha fatto tutto se non per amore di suo figlio. Se gli dicessi: Sacrificalo a me, non rifiuterebbe” (Rashi in loco).
Ma c’è una differenza tra la “tentazione” di Abramo, in cui Dio tenta, e quella di Giobbe, in cui la sfida è tra il Satana e Dio, e Giobbe è soltanto l’oggetto ignaro della sfida. Potremmo anche dire che in Genesi 22, se Abramo avesse deluso Dio, Dio avrebbe scelto un altro, mentre in Giobbe 1-2, se Giobbe avesse ceduto, Dio avrebbe dovuto – se così si può dire – cedere il suo posto al Satana, o comunque dichiararsi perdente al cospetto della corte celeste. In entrambi i casi, comunque, Dio si fida, e di Abramo e di Giobbe: si fida, e ciò significa che ha fede in loro, e quindi non sa, ma spera. Se sapesse, in forma di onniscienza, le due storie sarebbero sceneggiate ingiustificabili e moralmente false.
Allora, Dio rischia con Abramo, con Giobbe, con noi. Un Dio che rischia è un Dio che non sa ancora e che conta sulla nostra tenuta, mentre il Satana, implicito o esplicito, punta sul suo (di Dio) e sul nostro fallimento. Allora, la tentazione risponde a un divino bisogno di noi, di rassicurarsi che siamo con lui. Perciò la nostra richiesta di non essere tentati e di essere liberati dal maligno non è paragonabile alla risposta di Gesù tentato: “Vattene Satana” (Mt 4,10), o di Gesù a Pietro: “Lungi da me, Satana!” (Mt 16,23).
Ma se questa è la nostra lettura, una nostra lettura, che cosa significa la richiesta successiva “liberaci dal male” (o “dal maligno”)? Se non si tratta di una ripetizione della richiesta precedente, c’è dunque un male – la tentazione – che viene da Dio, e uno che viene da “un’altra parte”? Quale sarà quest’altra parte? Uscito dal manicheismo, Agostino, con l’aiuto dei platonici, si era convinto che quest’altra parte (che naturalmente non chiamava così) fosse il non essere:
“Dunque, tutto ciò che esiste è bene, e il male, di cui cercavo l’origine, non è una sostanza, perché, se fosse tale, sarebbe bene: infatti, o sarebbe una sostanza incorruttibile, e allora sarebbe inevitabilmente un grande bene; o una sostanza corruttibile, ma questa non potrebbe corrompersi senza essere buona. Così vidi, così mi si rivelò chiaramente che tu hai fatto tutte le cose buone e non esiste nessuna sostanza che non sia stata fatta da te; e poiché non hai fatto tutte le cose uguali, tutte esistono in quanto buone ciascuna per sé, e assai buone tutte insieme, avendo il nostro Dio fatto tutte le cose buone assai.”
In tal modo Agostino rispondeva alle domande che lo tormentavano, e che erano le nostre stesse: “Allora, dov’è il male, da dove e per dove è penetrato qui dentro? Qual è la sua radice, quale il suo seme?”, “E se fossi creatura del diavolo, donde viene a sua volta il diavolo? Se anch’egli diventò diavolo, da angelo buono che era, per un atto di volontà perversa, questa volontà maligna che doveva renderlo diavolo donde entrò anche in lui, fatto integralmente angelo da un creatore buono?”.
No, il male da cui chiediamo a Dio di essere liberati non è il non essere: questo mondo, in questo secolo, è pieno di male esistente in forme sempre nuove, in noi e fuori di noi, in forma di peccato (parola troppo debole per incasellare, per esempio, il male di Auschwitz), ma anche di dolore innocente. Che tutto questo discenda da quella colpa che la Bibbia indica miticamente nel peccato di Adamo, la Bibbia stessa lo nega, dando ragione all’affermazione di Paul Ricoeur, di “un male già là, prima di ogni iniziativa malvagia imputabile a qualche intenzione deliberata”. Infatti, se Dio è “colui che fa il bene e crea il male” (Is 45,7) il mito della Genesi 3 ci obbliga a risalire più indietro, al mito cabbalistico che identifica l’altra parte (sitrà achra) con il lato oscuro di Dio, combinando in un’unica immagine di Dio il dualismo di Marcione e di Mani. Era questo il Dio a cui Gesù, nel giardino del Getsemani, chiede: “Padre, se vuoi, allontana da me questo calice! Tuttavia non sia fatta la mia, ma la tua volontà” (Le 22,42)?
No, il Dio a cui si rivolse Gesù, e a cui si rivolge la nostra richiesta di essere liberati dal male, è colui che, se potesse, ci libererebbe dal male: la sua “altra parte”, il suo lato oscuro è la debolezza, che fa di lui “il nascosto” (ha-mistatter, Is 45,15), “colui che cerca” (a ogni uomo è diretta la domanda di Gen 3,9, “Dove sei?”, perché Dio perderebbe tutti i suoi attributi se mancasse l’uomo). Dio può qualche cosa solo se noi glielo chiediamo: la petizione finale del Pater, paradossalmente, è un aiuto a Dio perché sia Dio, sia più Dio. Perché il suo lato destro vinca il suo lato sinistro.
Ma Gesù, nella sua preghiera, non dice al Padre: “Se puoi”, ma “Se vuoi”, e questo risospinge in alto mare la nostra navicella che sembrava approdare. E allora, o Padre nostro, non indurci in tentazione di risposte, ma liberaci dal male della teodicea. Amen.
PAOLO DE BENEDETTI
Da “Il male” – Raffaello Cortina Editore
Foto: Rete