L’intensa e appassionante storia delle donne calabresi

 

L’intensa e appassionante storia delle donne calabresi è stata ignorata o tenuta ai margini nelle ricerche degli storici tradizionali. Le donne sono state protagoniste della storia quanto gli uomini, ma ancora oggi le comunità scientifiche ignorano il loro ruolo. Bisogna rimediare a tale mancanza anche se il lavoro per le giovani ricercatrici sarà faticoso e complesso. Le fonti d’archivio spesso forniscono scarse notizie sulla vita delle donne calabresi e quelle poche sono spesso pervase da pregiudizi e stereotipi. Ma, come scriveva Lucien Febvre, lo storico non deve rassegnarsi mai. E, in mancanza dei fiori normalmente usati, deve utilizzare tutta la sua ingegnosità per fabbricare il suo miele. Bisogna attingere materiale negli archivi e nelle biblioteche, ma anche nei campi più disparati come le fonti folkloriche, fiabe, miti, leggende e reperti archeologici.

E gli uomini stanno a guardare

Le annotazioni dei viaggiatori stranieri che giunsero in Calabria nel Settecento e nell’Ottocento, anche se a volte viziate da atteggiamenti etnocentrici, sono di grande interesse. De Rivarol scriveva che i mariti lasciavano le mogli a casa e passeggiavano per la piazza del paese con oziosa indolenza. Le famiglie calabresi si rassomigliavano tutte ed erano composte da un marito despota e freddo e una moglie triste e timorosa che faceva i lavori più pesanti. Didier osservava che le contadine salivano e scendevano dai paesi portando grandi pesi sulla testa e i maschi le guardavano passare e ripassare senza aiutarle.

Vom Rath annotava che a Siderno le donne andavano e venivano dal villaggio portando acqua nelle grandi brocche a due manici e col collo stretto. Per raggiungere la fontana impiegavano un quarto d’ora, poi tornavano con i recipienti pieni in testa. Gli uomini, intanto, se ne stavano silenziosi avvolti nelle cappe e col capo coperto dal berretto di lana azzurra. Rebuschini, vedendo le donne di Oppido portare i pesanti fardelli sul capo, scriveva che esse sostituivano le bestie da soma. Camminavano per viottoli ripidissimi con cesti di agrumi che pesavano fino a mezzo quintale, tenendo le mani sulle anche e l’occhio fisso al suolo.

Le ginocchia come tavola

Didier raccontava che nella famiglia cosentina presso cui era alloggiato a donne e bambini era vietato sedersi a tavola, così lui pranzava col capo famiglia e il figlio maggiore. Rilliet osservava che anche nei paesi albanesi quando arrivava uno straniero erano padri, mariti e fratelli a fare gli onori di casa. Le donne non stavano mai a tavola con gli uomini. Per Griois le donne calabresi, anche quelle benestanti, avevano poca libertà. Se a pranzo c’erano ospiti, la moglie mangiava quello che restava su una tavola tutta speciale: le ginocchia! Dopo aver abbracciato gli uomini della famiglia Cefalì che lo avevano ospitato, nel congedarsi dalla padrona di casa e dalle figlie, Strutt dovette fare a meno di essere galante. Il bacio non era permesso e anche una stretta di mano sarebbe stata considerata troppo spinta.

Le donne oggetto

Lombroso denunciava che la donna calabrese era considerata alla stregua di un oggetto. In diverse comunità chi chiedeva la mano di una fanciulla poneva un tronco d’albero davanti alla sua porta. Se il ceppo era portato in casa, voleva dire che la famiglia era d’accordo. Nei villaggi albanesi il rito del matrimonio rammentava il Ratto delle Sabine. Mentre la giovane camminava insieme ai suoi familiari, il futuro sposo, facendosi teatralmente largo con pugni e schiaffi, la rapiva e la portava in casa. In altri paesi lo sposo, insieme a parenti e amici, sparava in aria colpi di fucile, poi faceva irruzione in casa della fidanzata, la sottraeva alla sua famiglia e la portava via. De Rivarol affermava che il matrimonio liberava la donna dall’oppressione del padre-padrone e la incatenava alla volontà tirannica di un marito-padrone, che vedeva in lei un acquisto utile.

Escluse dalla società e addette ai lavori domestici, le mogli si abbrutivano, diventavano goffe e prive di buone maniere. De Tavel sosteneva che le calabresi non avevano fascino e grazia perché venivano maritate molto giovani e sfiorivano presto. Anche le donne che appartenevano alle classi agiate erano infelici per l’estrema gelosia degli uomini che le tenevano sempre chiuse in casa e le trattavano senza alcun riguardo. Bartels confermava che a Cosenza le donne erano completamente segregate e i maschi non perdevano occasione per sottolinearne l’inferiorità: non pranzavano mai con gli uomini e il loro compito era unicamente quello di attendere alle faccende domestiche.

Quando tornava dai campi, la contadina, carica come un asino e sempre a debita distanza, seguiva il marito che la precedeva trotterellando tutto tronfio in groppa all’animale. Gissing annotava che a Cosenza, tranne le donne povere, era impossibile vederne una benestante per strada, poiché vigeva «un sistema orientale di reclusione». Per vom Rath in città non esistevano occasioni sociali in cui uomini e donne s’incontravano perché i primi erano estremamente gelosi e possessivi.

La Margherita, un giornale per le donne calabresi

Il 10 maggio 1877 alcune cosentine diedero alle stampe La Margherita. Il giornale si proponeva l’istruzione delle donne ma ancora prima di uscire suscitò apprensione e preoccupazione. Al punto che il suo responsabile nell’editoriale del primo numero dal titolo Ai babbi e alle mamme dovette tranquillizzare i genitori precisando che il giornale non voleva offuscare il candore delle loro fanciulle.

«Un giornale per le nostre figliole redatto da giovani! Ma se n’è vista mai una simile a Cosenza?… Piano, babbi e mamme carissime, non vi spaventate, non aggrottate il sopracciglio; e permettete prima che vi accigliate a farci una romanzina, qualche spiegazione. Vero, in Cosenza non era mai surta e nessuno l’idea di pubblicare una efferide educativa e istruttiva, consacrata esclusivamente alle Donne; e in verità è stato un grave torto che s’è fatto loro: quasi che in questo povero angolo di Calabria, non fossero degli ingegni eletti, che comprendono e sentono eminentemente. E se fin’oggi le nostre donne giacquero dimenticate, oscure, neglette, è tempo oramai che si sveglino, che si muovano, e ci aiutino a innaffiare questo, nascente fiore che si chiama Margherita».

La vita in uno sguardo

Vincenzo Padula in un articolo del 1876 annotava che le donne del cosentino avevano fianchi vigorosi, occhi arditi, polsi robusti, gote floride, ricca capigliatura e l’accento minaccioso perché «nate nel paese dei tremuoti e dei vini forti». Maneggiavano la conocchia e il pugnale, la spola e la scure e il loro sguardo era infallibile come il fucile: se fissavano con gli occhi raddoppiavano la vita e se fissavano con l’arma la toglievano,

Nel 1602, lo storico Marafioti aveva sottolineato invece la loro sobrietà, onestà e laboriosità: «Le donne di Calabria sono destrissime & ingegnosissime ne’ loro mastaritij perché non attendono ‘l giorno ad acconciarsi la faccia e farsi biondi i capelli, ma attendono a lavorare tele, tovaglie di varie sorti & altri suppellettili di casa, non sono ubbriache, ma pare che dalla natura habbino questo dono particolare, che niuna beva vino, e si mantenga sana e bella. Sono tutte virtuose, honeste, affabili, piacevoli e cortesi, tanto nelle parole che nell’opre; e sono tanto prudenti, accorte, & industriose, che mai si lasciano trovare in fallo da loro parenti, ò mariti, ma più tosto per sospitione si puubblica l’errore».

Madri operaie

Le donne calabresi nei secoli hanno contribuito in maniera decisiva al mantenimento della famiglia. Le braccianti lavoravano duramente e neanche nel periodo della maternità avevano riposo. In un’inchiesta ministeriale di fine Ottocento si legge che le gestanti del cosentino faticavano sino al giorno del parto. Non era raro che fossero colte dalle doglie sui campi per riprendere il lavoro una settimana dopo la nascita del figlio.

Manodopera femminile era impiegata nelle manifatture ma anche nei cantieri stradali, concerie, segherie, frantoi, mulini e fabbriche di laterizi e liquirizia. La maggior parte lavorava nelle industrie tessili: nel 1861 erano occupate 59.911 donne contro i 18.641 maschi e dieci anni dopo il loro numero scese a 50.298 unità di cui 47.398 lavoratrici tessili e 2.141 impiegate nelle sartorie.

Sono state le donne calabresi a sostenere le famiglie nel periodo della grande emigrazione nelle Americhe. Nella provincia di Cosenza le mogli rimaste sole a provvedere al mantenimento dei figli erano migliaia, nel 1901 se ne contavano 19.260. Un ufficiale sanitario del litorale tirrenico comunicava ai superiori che da quando gli uomini erano espatriati le femmine erano sfiancate dalla fatica. Descrivendo la pietosa condizione delle «vedove bianche» informava che «il maggior lavoro incombeva alle povere donne, moglie e figlie di emigrati le quali per bisogno di campare la vita lavoravano oltre le loro forze».

Le donne calabresi in Africa

Seppure avvezze a sopportare stenti e sacrifici le donne non esitavano a lasciare la loro terra quando intravedevano la possibilità di migliorare le loro condizioni di vita. Intorno alla metà dell’Ottocento, centinaia di donne della provincia di Cosenza partivano per l’Algeria e la Tunisia; quelle della provincia di Catanzaro, imbarcandosi a Pizzo, si recavano al Cairo o ad Alessandria d’Egitto. In Africa facevano soprattutto le balie ma lavoravano anche come domestiche, cameriere e stiratrici in case private e alberghi. Gli studiosi del tempo si mostravano scandalizzati da questo flusso migratorio che abbatteva la credenza secondo la quale le donne vivevano in condizioni di totale reclusione.

Scalise scrive che si trattava di un ingente esodo di donne che, appena dopo il parto, lasciavano i figli e, col seno turgido e riboccante di latte, andavano a nutrire i nati delle anemiche inglesi che abitavano nel paese dei faraoni. Lo studioso rileva che, fatto insolito e quasi unico, nel 1881 in provincia di Catanzaro il numero dei coniugati presenti al momento del censimento era superiore a quello delle coniugate. E aggiunge il suo malizioso commento personale: le donne lontane, svolgendo un lavoro ozioso e gentile, belle e ben nutrite, arrotondavano i fianchi e non erano restie a concedere le labbra coralline al bacio spesso doppiamente adultero! Resta il fatto che il coraggio di queste donne lo colpisce persuadendolo che il sesso debole si dimostra forte quando ha la libertà di affermarsi. Scalise non è tra coloro i quali si scandalizzano per questa originale emigrazione, come aveva fatto l’economista francese Ovou in un suo articolo comparso sulla Revue des Deux Mondes.

Le due Guerre mondiali

Le donne calabresi erano coraggiose e spesso si ribellavano ai soprusi. Nella prima e seconda Guerra mondiale migliaia di popolane scesero in piazza per chiedere il rientro dei mariti dal fronte e per denunciare la penuria di generi di prima necessità, l’aumento indiscriminato dei prezzi, l’inadeguatezza dei sussidi e la mancanza di assistenza alle famiglie.

Sventolando bandiere tricolori giravano per le vie e con loro portavano i figli per rendere la manifestazione più rumorosa e scoraggiare l’uso delle armi da parte dei soldati. A volte queste rimostranze sfociavano in episodi violenti, come occupazioni di municipi, saccheggi di negozi, aggressioni agli amministratori e ai «milionari» che non davano un centesimo per i bisognosi e ingrassavano speculando sulla guerra.

 

GIOVANNI SOLE

FONTE: https://icalabresi.it/cultura/donne-calabresi-una-storia-ancora-tutta-da-scrivere/?fbclid=IwAR1Pp-bq2JI6CBN03FvBONCMuaM7wYXGbD7faafFjLFcRnQsKOMOj2FHgSs

FOTO: Rete

 

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