L’opera di oggi: BATTAGLIA DI ISSO

L’opera

Fin dalla sua scoperta, avvenuta nella Casa del Fauno a Pompei il 24 ottobre 1831, il mosaico con la Battaglia di Isso (combattuta e vinta da Alessandro Magno contro il re persiano Dario III nel 333 a.C.) suscitò molto clamore: trascrizione di altissimo artigianato di una megalografia (pittura di grandi dimensioni) ellenistica, il mosaico permette di far luce sulla grande tradizione pittorica greca.

Copia romana, probabilmente del II secolo a.C., di una celebre pittura del IV-III secolo a.C. Mosaico proveniente dalla Casa del Fauno a Pompei, 2,7×5,12m Napoli, Museo archeologico nazionale

Analisi

Una tecnica che imita la pittura

II mosaico è eseguito con una particolare tecnica alessandrina, detta dai romani opus vemiculatum: composto di tessere piccolissime (max 3 min ciascuna), permette di imitare meglio il fluire dei contorni delle figure, come avviene nella pittura, senza quella discontinuità nel tessuto cromatico e lineare che si osserva solitamente nel mosaico pavimentale romano (e nelle opere musive bizantine e medievali).

Ipotesi sulla derivazione dell’opera

Si è ipotizzato che l’opera, usata come decorazione musiva pavimentale, quasi come un prezioso tappeto di finissima tessitura, fosse la riproduzione dell’affresco, citato da fonti letterarie, di Filosseno d’Eretria, che aveva trattato questo tema tra il 301 e il 297 a.C.

Si tratta quindi di un’opera già ellenistica, come datazione, ma in cui, stando sempre alle descrizioni ricavabili dalle fonti letterarie, si dovrebbe poter intravedere ancora l’eco della grande pittura classica del secolo precedente – forse quella stessa di Apelle, pittore greco del IV secolo a.C., ritrattista ufficiale di Alessandro Magno. Nell’immagine compaiono pochi colori, il bianco, il nero, varie gamme di ocra, i bruni e il rosso, che sono quelli tradizionalmente usati dai pittori greci della classicità.

Immagini create con macchie di colore

I mosaicisti hanno saputo tradurre, nella loro opera, effetti di chiaroscuro e riflessi con grande maestria, come è possibile osservare per esempio sulle terga del cavallo quasi al centro della scena e sul magnifico destriere nero in fuga nella parte destra del mosaico.

Alcuni esegeti dell’opera si sono spinti a ipotizzare che il tipo di pittura cui l’ignoto o gli ignoti mosaicisti si sono ispirati è non solo quella dotata di effetti di volume, con riflessi o lustri, cioè colpi di luce bianca, eredità del mitico Apelle, ma addirittura la pittura che avrebbe dato il via alla grande tradizione ellenistica, capace anche di effetti di sfumato e fusione dei colori. Ci troveremmo, così, di fronte a quell’impressionismo antico, poi sfociato nella pittura compendiaria romana, lo stile pittorico che crea l’immagine con pennellate rade e con macchie di colore, senza definirne contorni e particolari. Il colpo di luce sul viso di Alessandro, dai capelli romanticamente scompigliati, come voleva la tradizione stabilita dallo stesso Apelle e da Lisippo in scultura, e i riflessi sul manto madido di sudore dei cavalli sono prove di questa libertà pittorica.

Lo scorcio potente del cavallo al centro, in cui l’effetto plastico raggiunge una delle sue più felici realizzazioni, mostra dei modi di fusione e di trascolorazione da una tinta all’altra, dal chiaro allo scuro, ottenuti a macchia, molto significativi.

Possiamo supporre che l’autore della megalografia originale abbia qui steso tre macchie concentriche di colore, dal bianco, all’ocra, al bruno, fondendone i contorni in modo da ottenere un trapasso graduale dei colori. La punta massima di luce quasi bianca, al centro, suggerisce, oltre all’effetto di volume, anche il riflesso della luce sulla superficie bagnata di sudore del pelame della bestia, e contrasta potentemente col nero che sottolinea il profilo destro del cavallo.

Uso dello spazio al servizio della narrazione

Sempre lo scorcio del cavallo al centro suggerisce un’altra importante questione: quella spaziale e prospettica.

È indubbio che fin dal V-IV secolo a.C. i greci avessero scoperto

lo scorcio, cioè la rappresentazione in prospettiva di un corpo in posizione obliqua rispetto al piano di fondo, e quindi avessero maturato una nuova sensibilità per i problemi dello spazio, certamente superiore a quella di qualsiasi altra civiltà del passato.

Tuttavia, almeno per quanto ci lasciano capire la Battaglia e alcune altre grandi testimonianze della pittura pompeiana, la rappresentazione prospettica era per i pittori antichi un effetto fra gli altri, e non assunse mai il valore centrale che ebbe poi nel Rinascimento.

I pittori antichi prediligono i primi piani, e la loro pittura assume piuttosto, come in questo caso, un andamento in orizzontale, quasi di grande storia da leggere seguendo la parete, più che uno sviluppo in profondità.

 

Non pensiamo si possa sostenere, come qualcuno ha fatto, che la Battaglia di Isso proponga ma non risolva il problema dello spazio: in effetti le armi abbandonate al suolo, i numerosi scorci, l’espediente scenico efficacissimo delle lance in secondo piano che si piegano verso la figura di Alessandro con i suoi soldati a proteggere la fuga di Darlo, sono altrettante prove di una coerente soluzione spaziale. Probabilmente una scena che si fosse sviluppata più in profondità avrebbe però perso il senso dell’azione, che la soluzione dei personaggi profilati contro il cielo bianco accampa qui con tanta vivacità, e il risultato generale sarebbe stato più confuso.

 

Da “Storia dell’arte 1” Electa – Bruno mondadori

Foto: Rete

 

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