Lungo tutto il corso dell’esistenza, una sola capacità merita di essere acquisita: l’apprendere a vivere, che significa anche e soprattutto “imparare a morire”. In verità è “bello portare a compimento la vita prima della morte, e poi aspettare sereno il resto dei propri giorni, senza niente attendere per sé, godendo il pieno possesso della felicità, che non aumenta con la durata del tempo”. È bello — secondo le parole di Marco Aurelio — morire cadendo come un'”oliva matura”, grata all'”albero che l’ha prodotta”. Bello, infine, essere padroni del proprio tempo, in tutte le sue dimensioni.
Chi ha cura e padronanza di se stesso, qui totus suus est, ha un dominio durevole e inalienabile del passato: perpetua eius et intrepida possessio est (De brev. vit., x, 4), ma chi è “occupato” non è capace di convocare i giorni trascorsi e di ripercorrere tutte le parti della propria vita (in omnes vitae suae partes discurrere) lungo l’asse unitario del presente, di rappresentarsi la catena delle azioni, delle omissioni e degli eventi che ci hanno costituito a partire dall‘eimarmene, dal fatum, dalle condizioni trovate nel nascere e insite nei rapporti, indipendenti da noi, tra le cose e gli uomini. Il passato sembra più facile da controllare, perché è “il periodo sul quale la fortuna ha perduto ogni diritto e che non può essere assoggettato al potere di nessuno” (ibid., x, 2), quello in cui abbiamo già visto muoversi un tratto della “ruota” del tempo o srotolarsi una parte della “gomena” che lo raffigura […]. Nei suoi confronti, il futuro appare incerto, mentre il presente è invece breve. Eppure è la fedeltà al proprio passato che continua a costituire il nucleo della fermezza del saggio, la base per ogni sua azione.
In tale contesto si raggiunge aristotelicamente l’eudaimonia e stoicamente la euthymia (che da Panezio in poi indica la gioia interiore e che Seneca rende con tranquillitas animi). Nel poter serenamente, da parte del saggio, ripercorrere la propria vita in omnes […] suae partes — ciò in cui consiste peraltro la coerenza con se stessi e l’assenza di dissidio e, almeno in qualche misura, il senso dell’identità personale e la felicità come “buono scorrere della vita” — si raggiunge il massimo appagamento degli uomini virtuosi.
Seneca — rifiutando, come Panezio e, successivamente Plutarco, la teoria di Aristippo sulla natura istantanea del piacere, la monochronos edone, e superando alcune contraddizioni degli stoici più antichi come Crisippo — riporta la tranquillità dell’anima al presente in quanto fluire, costruzione istante per istante di se stessi, nodo dell’identità punto di congiunzione tra passato e futuro. Ciò non contrasta affatto con le sue ripetute affermazioni, per cui “ogni ora del nostro passato appartiene al regno della morte” (Ep., i, 1) o ad altre sue tesi in base alle quali il saggio non deve preoccuparsi del futuro (cfr. ibid., XIII). Il presente del saggio non è infatti rapina dell’istante, ma continua presenza a se stesso nello scorrere del tempo. Ciò gli permette di guardare al passato senza rimorso e al futuro senza angustie, ugualmente libero da timori e speranze. In tal modo, egli costruisce attorno a sé un saldo sistema di difesa, mura “eccelse”, inespugnabili, alte quanto gli dèi” (De const. sap., VII, 8).
Secondo Seneca, del resto, la morte non è per noi nulla di nuovo. Da una parte, l’abbiamo infatti conosciuta ancor prima di nascere e, dall’altra, moriamo a ogni momento insieme al passato che ci appartiene: “II nostro errore sta nel pensare che la morte venga dopo, mentre come ci ha preceduti, così ci seguirà. Tutto quello che è stato prima di noi è morte […] Tu loda e imita colui a cui non rincresce la morte, mentre la vita gli dà ancora gioia.”
La morte che ci attende nel futuro non è nulla di nuovo, anche perché gli uomini l’hanno forse sperimentata infinite volte, così come vi sono state infinite rinascite del mondo nei suoi cicli: “Infatti, come il grembo materno ci tiene nove mesi non per sé, ma per prepararci a quel luogo in cui poi veniamo alla luce già in grado di respirare e di resistere all’aria libera, così, attraverso il periodo che va dall’infanzia alla vecchiaia, diventiamo maturi per un altro parto. Ci attende un’altra nascita, un altro ordine di cose.” Dalla morte scaturisce l’ultima consolazione: quella di essere partecipi dell’eterno trasformarsi dell’identico. La morte è un ritorno al tutto dell’universo, alla ragione universale. Perciò è un grande conforto l’essere travolti assieme alle vicende dell’universo: Magnum solacium est cum universo rapi (De prov., v, 8) o — di nuovo con Marco Aurelio — seguire “il grande sentiero della natura”, rivolgere spesso l’animo alla concatenazione di tutte le cose, all'”universale sorgente” da cui scaturisce ogni essere ed evento nella sua necessità, “amare soltanto quelle vicende che a te accadono, quello che è tessuto insieme con il filo della tua vita”. Tale atteggiamento è, anche secondo Seneca, tanto più raccomandabile, in quanto la vita ci è data in usufrutto dalla natura: morendo saldiamo un debito (cfr. Sen.,Ad Marc., x, 2).
REMO BODEI
Da “Geometrie delle passioni” – Feltrinelli
Foto: Rete