Non è qui possibile ricostruire, nemmeno per cenni, il percorso leopardiano nel suo definitivo prender congedo dai residui provvidenzialistici e cristiani. Mi concentrerò perciò sul pensiero maturo del poeta di Recanati, che perviene – negli anni tra il 1825 ed il 1827 – ad un integrale e coerente materialismo, nutrito di fonti antiche e settecentesche, che sorregge un radicale pessimismo sul destino dell’uomo e sulla natura, concepita come fredda ed indifferente generatrice di esistenza e d’infelicità. […]
L’antiteodicea rappresenta in effetti un motivo fondamentale (ma si potrebbe dire il motivo fondamentale) dell’opera di Leopardi, quale emerge dal complesso della sua produzione, dai Canti alle Operette morali, dall’epistolario allo Zibaldone. Quest’ultimo testo, in particolare, offre una tangibile dimostrazione del complesso e quotidiano scandaglio che Leopardi condusse intorno al problema del male ed alle insufficienze teoriche delle sistemazioni che le teologie e le metafisiche ne avevano proposto. «Tramontato il sogno di una natura benefica», ha scritto Patrizia Girolami, «la realtà si trasforma in un groviglio incomprensibile che sfida le possibilità della nostra logica e rende ancora più difficile raggiungere quel Dio che già abita a una distanza infinita dal mondo degli uomini. Nelle cose non è iscritto alcun ordine né perfezione che lasci indovinare i tratti del loro creatore. La sola legge a cui obbediscono è un alternarsi ciclico e inarrestabile di creazione e distruzione, di vita e di morte […]»
Contro le idee e gli argomenti tipici della tradizione fisico-teologica e giustificativa […] Leopardi riprende temi e motivi che […] affermando che l’unico «fine della natura universale è la vita dell’universo», ma che tale vita «consiste ugualmente in produzione, conservazione e distruzione dei suoi componenti, e quindi la distruzione di ogni animale entra nel fine della detta natura almeno tanto quanto la conservazione di esso, ma anche assai più che la conservazione, in quanto si vede che sono più assai quelle cose che cospirano alla distruzione di ciascuno animale che non quelle che favoriscono la sua conservazione» (Zibaldone, 4130: 5-6/4/1825).
Quest’infinito meccanismo di creazione e distruzione comporta la sofferenza e l’infelicità degli esseri senzienti, per i quali il non vivere sarebbe preferibile al vivere. «La natura tutta, e l’ordine eterno delle cose non è in alcun modo diretto alla felicità degli esseri sensibili e degli animali. Esso vi è anzi contrario. […] Gli enti sensibili sono per natura enti souffrants, una parte essenzialmente souffrante dello universo. Poiché essi esistono e le loro specie si perpetuano, convien dire che essi siano un anello necessario alla gran catena degli esseri, e all’ordine e alla esistenza di questo tale universo, al quale sia utile il loro danno, poiché la loro esistenza è un danno per loro, essendo essenzialmente una souffrance» (Zibaldone 4133: 9/4/1825).
Dalla necessaria infelicità di ogni essere vivente consegue che la felicità risulta «di sua natura impossibile» e «viene a essere un ente di ragione e una pura immaginazione degli uomini». La vita stessa, «per virtù dell’ordine eterno e del modo di essere delle cose», è inseparabile dall’infelicità, «onde vivente e infelice sieno quasi sinonimi» (Zibaldone, 4137: 3/5/1825). «Non gli uomini solamente, ma il genere umano fu e sarà sempre infelice di necessità. Non il genere umano solamente ma tutti gli animali. Non gli animali soltanto ma tutti gli altri esseri al mondo. Non gl’individui, ma le specie, i generi, i regni, i globi, i sistemi, i mondi» (Zibaldone, 4175: 19/4/1826).
L’uomo, come ogni altro individuo vivente, non nasce per godere della vita, ma solo per perpetuarla. È questa la «spaventevole, ma vera proposizione e conchiusione di tutta la metafisica»: tutti gli esseri viventi non hanno per fine se stessi, ma unicamente la conservazione della vita. «L’esistenza non è per l’esistente, non ha per suo fine l’esistente, né il bene dell’esistente; se anche egli vi prova alcun bene, ciò è un puro caso: l’esistente è per l’esistenza, tutto per l’esistenza, questa è il suo puro fine reale. Gli esistenti esistono perché si esista, l’individuo esistente nasce ed esiste perché si continui ad esistere e l’esistenza si conservi in lui e dopo di lui. Tutto ciò è manifesto dal vedere che il vero e solo fine della natura è la conservazione delle specie, e non la conservazione né la felicità degl’individui; la qual felicità non esiste neppur punto al mondo, né per gl’individui né per la specie» (Zibaldone, 4169: 11/3/1826).
Riprendendo i temi svolti da Voltaire nell’Epìtre sur le désastre de Lisbonne, Leopardi afferma come «cosa certa e non da burla» che «l’esistenza è un male per tutte le parti che compongono l’universo», come risulta manifesto dall’evidenza che «tutte le cose al loro modo patiscono necessariamente, e necessariamente non godono, perché il piacere non esiste esattamente parlando». Ne consegue che «l’esistere è per sé un male» (Zibaldone, 4175: 19/4/1826).La natura, infatti, «per necessità della legge di distruzione e riproduzione, e per conservare lo stato attuale dell’universo, è essenzialmente regolarmente e perpetuamente persecutrice e nemica mortale di tutti gl’individui d’ogni genere e specie, ch’ella da in luce; e comincia a perseguitarli dal punto medesimo in cui gli ha prodotti. Ciò, essendo necessaria conseguenza dell’ordine attuale delle cose, non da una grande idea dell’intelletto di chi è o fu autore di tale ordine» (Zibaldone 4485-4486: 11/4/1829).
Non vi è dunque alcuno spazio per le tesi tradizionali sulla bontà dell’universo o per gli argomenti che riducono il male a mera apparenza antropocentrica. Al contrario, la constatazione dell’inevitabile ed irrimediabile sofferenza ed infelicità di ogni vivente autorizza la secca e disperata ontologia in cui sprofonda l’inquietudine leopardiana: «Tutto è male. Cioè tutto quello che è, è male; che ciascuna cosa esista è un male; ciascuna cosa esiste per fin di male; l’esistenza è un male e ordinata al male; il fine dell’universo è il male; l’ordine e lo stato, le leggi, l’andamento naturale dell’universo non sono altro che male, né diretti ad altro che al male. Non v’è altro bene che il non essere: non v’ha altro di buono che quel che non è; le cose che non son cose: tutte le cose sono cattive. Il tutto esistente; il complesso dei tanti mondi che esistono; l’universo; non è che un neo, un bruscolo in metafisica. L’esistenza, per sua natura ed essenza propria e generale, è un’imperfezione, un’irregolarità, una mostruosità. Ma questa imperfezione è una piccolissima cosa, un vero neo, perché tutti i mondi che esistono, per quanti e quanto grandi che essi sieno, non essendo però certamente infiniti né di numero né di grandezza, sono per conseguenza infinitamente piccoli a paragone di ciò che l’universo potrebbe essere se fosse infinito; e il tutto esistente è infinitamente piccolo a paragone dell’infinità vera, per dir così, del non esistente, del nulla» (Zibaldone 4174: 19-22/4/1826).
È vero che il nostro autore si ritrae da conclusioni definitive e che l’ontologia qui accennata resta in qualche misura ipotetica: essa ha però dalla propria parte ogni verosimiglianza, se si considera il dolore di ogni vivente. Lo scetticismo leopardiano, così sarcasticamente proteso a deridere ogni illusione antropocentrica, non esita infatti a difendere (come già Bayle) la legittimità del punto di vista umano sulla sofferenza che gli è destinata in sorte. Resti pure indeterminata la questione ontologica generale, ma chi soffre ha tutto il diritto di denunciare l’assurdità e lo scandalo del male che lo colpisce: «per noi, e relativamente a noi», questo universo «nella più parte è cattivo», al punto che «ciascuno di noi per questo conto l’avria saputo far meglio, avendo la materia, l’onnipotenza in mano». A chi invita ad ammirare l’ordine dell’universo, Leopardi ribatte con un amaro paradosso: sia pure, «io l’ammiro più degli altri: lo ammiro per la sua pravità e deformità, che a me paiono estreme. Ma per lodarlo, aspettiamo di sapere almeno, con certezza, che egli non sia il pessimo dei possibili» (Zibaldone 4258: 21/3/1827). Come scrive ancora la Girolami, «nel ratificare la situazione di una souffrance universale, la disillusa teoresi leopardiana non inclina affatto verso una supina accettazione, ma suona denuncia dello scarto fra il piano dell’universo e il fine dell’individuo e si fa difesa del suo diritto non rispettato alla felicità. […] Il male non è soltanto il riconoscimento a parte subiecti della propria esistenza infelice, ma anche la condanna di quello stesso ordine che procura l’infelicità, l’arresto della ragione, misurato sul dramma della sensibilità tradita, che non cede all’irrazionalismo né a soluzioni accomodanti, ma diventa al contempo constatazione e sentenza di biasimo» (L’antiteodicea di L, p. 149).
Di qui nasce la “protesta” leopardiana, di cui ha parlato il Binni. Di qui nasce anche il sentimento profondo di solidarietà tra gli uomini e addirittura, in prospettiva, tra tutte le creature, ugualmente oppresse da una natura nemica. Se nel Dialogo tra la natura ed un islandese il confronto era ancora tra il singolo uomo e l’oscuro potere che lo domina e lo affligge, negli anni successivi emerge sempre più nitidamente il tema di una comunanza di destino e dunque di una necessaria fraternità degli oppressi. «La mia filosofia», reclamerà allora Leopardi, «non solo non è conducente alla misantropia, come può parere a chi la guarda superficialmente, e come molti l’accusano; ma di sua natura esclude la misantropia […]. La mia filosofia fa rea d’ogni cosa la natura, e discolpando gli uomini totalmente, rivolge l’odio, o se non altro il lamento, a principio più alto, all’origine vera de’ mali de’ viventi» (Zibaldone 4428: 2/1/1829).
L’antiteodicea trapassa dunque in antropodicea, cioè in una pietosa e commiserevole giustificazione dell’uomo. Contro Rousseau Leopardi proclama decisamente che non è l’uomo l’autore del male, che appartiene invece alla struttura intrinseca dell’universo. «Il male è nell’ordine» ed «esso ordine non che l’uomo è preso (e stritolato) nell’incessante meccanismo naturale di produzione e distruzione dà luogo a posizioni radicalmente antitetiche. L’immoralità della natura è per Sade il fondamento dell’immoralismo filosofico; al contrario, essa diviene in Leopardi, per contrasto, la pietra di paragone di una moralità che affratella gli esseri intelligenti. «Leopardi è un uomo etico, ha scritto Baldacci, che prende atto […] che non esiste nessun fondamento oggettivo al comportamento etico» (// male nell’ordine, p. 35). Leopardi scopre, grazie alla filosofia ed alla ragione, che la morale non può appellarsi ad un ordine naturale o divino: egli rifiuta però di sviluppare questa convinzione – come Sade – nella «dottrina della scellerataggine ragionata». Così facendo, egli esprime in una forma tra le più alte e consapevoli l’inquietudine dell’uomo moderno, che, abbandonate le illusioni provvidenzialistiche anche nelle versioni secolarizzate, cerca di difendere la legittimità di un punto di vista morale. Sta qui il dramma di Leopardi, che, mentre accoglie il nichilismo ontologico insito nel materialismo radicale, respinge invece disperatamente la deriva del nichilismo morale.
STEFANO BROGI
Da “I FILOSOFI E IL MALE” – Franco Angeli
Foto: Rete