L’ultimo dei movimenti collettivi che si sviluppò nei primi anni ’70 fu quello destinato a lasciare maggiormente il segno nel lungo periodo: come ha scritto Mariella Gramaglia, il femminismo in Italia venne dopo il 1968, ma andò oltre.
Negli anni ’60 la politica in Italia era un terreno quasi esclusivamente maschile. «Si sa che le donne di politica non capiscono e perciò devono lasciar fare l’uomo», diceva a Fofi un immigrato a Torino. Ancora nel 1972, nella Bologna comunista, Kertzer incontrò una militante donna che si lamentava in riunioni di sezione come molto spesso le mogli dei compagni rifiutavano di iscriversi al Pci «sostenendo che i loro mariti si prendevano cura di questi problemi».
Il Sessantotto e il movimento degli studenti avevano visto l’impegno politico di un numero di ragazze quale non si vedeva dal 1945-48. Allo stesso modo, durante l’«autunno caldo» e successivamente, migliaia di operaie furono alla testa delle manifestazioni sindacali e delle lotte più aspre contro i licenziamenti e la chiusura di alcune fabbriche […]. Ciononostante la posizione subalterna delle donne nel mondo del lavoro mostrò solo qualche lieve segnale di cambiamento. Dopo il 1968 la presenza femminile nel mondo del lavoro aumentò notevolmente, ma nel 1975 i salari delle donne mediamente erano del 12 per cento più bassi di quelli maschili, e le mansioni più basse erano ricoperte al 67 per cento dalle donne e solo al 23 per cento dagli uomini. I sindacati erano maschilisti e assai in ritardo sia nel difendere i diritti delle donne sia nel modificare i propri atteggiamenti. Sintomatico del loro comportamento e di quello dei partiti di sinistra fu l’articolo che nello Statuto dei Lavoratori del 1973, vietava ingiuste discriminazioni sul lavoro ma senza tener conto di quelle basate sul sesso.
Dopo il 1975 il movimento delle donne acquistò rilievo nazionale, raggiungendo il suo apice negli anni seguenti. Due fenomeni contribuirono allo sviluppo di questo grande movimento collettivo nella storia delle donne italiane. Il primo di questi fu la brusca inversione della tendenza, in atto da parecchi anni, alla crescita del livello di vita, in conseguenza del forte tasso di inflazione e della persistente stagnazione dell’economia; le donne di casa delle classi popolari cominciarono a trovare sempre maggiori difficoltà nel far quadrare i bilanci, mentre al contempo la crisi economica riduceva sempre più la loro possibilità di contribuire al reddito familiare con il lavoro part-time o con quello a domicilio. Queste pressioni sul benessere familiare produssero, come ha scritto Laura Balbo, «tensioni soggettive, ma anche una presa di coscienza collettiva». Le forme di questa coscienza, naturalmente, variarono moltissimo in rapporto alla classe sociale, all’età e al luogo; ovunque, tuttavia, in numero maggiore o minore, le donne furono coinvolte in quasi tutte le lotte sociali: per la casa, per l’autoriduzione, per i servizi sociali nei quartieri, esse uscirono dalla loro dimensione privata per assumersi un ruolo direttivo nell’azione collettiva.

MILANO 13 Gen 1979 – MANIFESTAZIONI DI FEMMINISTE, PER I FATTI DI ROMA ANNO 1979 p.s. la foto e’ utilizzabile nel rispetto del contesto in cui e’ stata scattata, e senza intento diffamatorio del decoro delle persone rappresentate
A Torino, nel settembre 1974, non meno di 600 famiglie occuparono il nuovo quartiere della Falchera, in quella che fu una tra le più imponenti delle occupazioni organizzate in tutta Italia. Dopo una lotta durata parecchi mesi, la giunta comunale di Torino garantì una casa ad ogni famiglia. Le donne che avevano preso parte all’occupazione organizzarono i loro comitati d’azione, misero in piedi un consultorio familiare e costrinsero il comune ad aprire un asilo nel quartiere. Un esempio può valere per tutti. Rosa, 31 anni d’età, sposata con due figli, era emigrata dalla Calabria a Torino nel 1961 e lavorava come operaia in una fabbrica locale. Comunista da sempre, divenne «delegata di scala» durante l’occupazione e raccontò cosi a Re e Derossi la sua esperienza:
Prima abitavo alla Falchera vecchia. La casa era vecchissima e malandata. Era già tanti anni che facevamo domande per una casa nuova. Allora io prima di occupare quel giorno ero andata a lavorare ed ero all’oscuro di tutto, non è che io dico questo perché ero contraria all’occupazione, soltanto che io pensavo che le case le dessero veramente a quelli più bisognosi e via dicendo, e invece quando mi sono trovata dentro casa tornata da lavorare, ho trovato la casa vuota e un biglietto che mi aveva lasciato scritto mia madre che era andata a occupare la casa alla Falchera. Io sono rimasta un po’ male perché come ho detto prima non trovavo giusto, e cosi sono arrivata e sono andata a cercarla per vedere quale casa aveva occupata. Quando l’ho vista mi è venuta incontro un po’ timida e credeva che io agivo male e che la gridavo, e mi fa: «guarda che ho occupato perché in camera e cucina abitate voi quattro più io che sono la mamma in cinque», eravamo stretti e poi la casa vecchia e i servizi fuori è antigienico. «Ma no mamma hai fatto bene», dico, non volevo sembrare che la sgridavo ma dentro di me non ero tanto contenta, poi pensando bene, cominciando ‘sta lotta ho capito che le case le avevano date a quelli che stanno meglio di me, allora abbiamo fatto bene ho detto tra me, allora siamo scese in lotta con tutte le altre donne e per me è cambiato molto facendo questa occupazione anche se alle lotte sono sempre stata presente in fabbrica e tanti tipi di lotta so come sono fatti e so come bisogna lottare. Però la lotta della Falchera è stata diversa il fatto che si è scesi in piazza tante donne, il fatto che si è parlato di tante altre cose, non solo dell’occupazione, di tante altre faccende.
Il secondo fenomeno, che precedette e si intrecciò con quello appena descritto, fu la crescita dei gruppi femministi a partire dal 1970. Questi piccoli gruppi si formavano perlopiù nelle grandi città ed erano composti da donne della classe media; per loro ebbe molta influenza il femminismo americano, con l’enfasi che poneva sul separatismo e sulla crescita della coscienza. Il femminismo, come ha scritto Anna Rossi-Doria, ha avuto storicamente in sé sia il tema dell’eguaglianza (con l’uomo) sia quello della diversità (delle donne). I gruppi italiani degli anni ’70 misero l’accento soprattutto sul secondo e si concentrarono attorno alle proprie esperienze di un mondo patriarcale a loro ostile: analizzarono la propria sessualità e l’oppressione maschile, giungendo infine a formulare richieste che miravano non tanto alla parità con gli uomini ma alla de I finizione di una vera e propria sfera di diritti delle donne in quanto tali. Come in Francia, i gruppi lavorarono insieme soprattutto sui temi della psicoanalisi, della teoria e della letteratura femminista.
Proposero anche una più generale idea politica, con alla base lo slogan, utilizzato inizialmente dal gruppo americano Now, «il personale è politico». La liberazione non doveva essere rinviata fino a dopo la rivoluzione, ma doveva iniziare subito nel privato, nei rapporti quotidiani tra donne, uomini e bambini; solo cosi sarebbe stato possibile raggiungere in seguito una trasformazione più completa. Questa politica «prefigurativa» era l’antitesi della pratica dei gruppi rivoluzionari, dove le relazioni personali erano subordinate al più importante obiettivo di una rivoluzione finale; lo stesso si può dire a proposito dell’enfasi posta dalle donne sulla non violenza e su forme organizzative antiautoritarie. Questo tentativo di ridefinire le basi stesse della politica, per quanto utopistico, fu straordinariamente nuovo e in netto contrasto con i vecchi modelli sia della sinistra tradizionale sia della nuova sinistra.
I gruppi femministi italiani avanzarono differenti richieste: Rivolta femminile denunciò il matrimonio e la famiglia come il luogo della dominazione maschile; Lotta femminista lanciò lo slogan «salario alle casalinghe»; l’Udi, il movimento delle donne comuniste, pose l’accento soprattutto sull’intervento dello Stato per alleviare l’oppressione delle donne. Uno dei gruppi più influenti fu il Movimento di liberazione delle donne italiane (Mld): strettamente collegato al piccolo Partito radicale, che verso la metà degli anni ’70 sarebbe divenuto il principale gruppo di pressione in favore dei diritti civili. Il Mld uni alle richieste di eguaglianza (l’eliminazione della discriminazione sessuale nelle scuole e sul lavoro) anche quelle che avrebbero potuto rafforzare l’autonomia delle donne (ad esempio il diritto a controllare il proprio corpo attraverso contraccettivi gratuiti e la liberalizzazione dell’aborto).
La prima grande manifestazione del movimento delle donne, circa 20 000, ebbe luogo a Roma il 6 dicembre 1975, ma fu disturbata da un gruppo di maschi di una sezione di Lotta continua che, incapaci di accettare l’idea di una manifestazione di sole donne, cercarono di inserirsi a forza nel corteo. Quella sera stessa la direzione di Lotta continua venne occupata da un gruppo di iscritte arrabbiatissime: era un segnale di quello che sarebbe accaduto.
Il movimento delle donne si sviluppò rapidamente per tutto il 1976: gruppi di delegate formarono collettivi nei diversi sindacati e commissioni di sole donne nei consigli di fabbrica; insegnanti donne e femministe trovarono nelle 150 ore un’opportunità unica di allargare il proprio uditorio; nelle scuole secondarie si propagarono con grande rapidità idee e collettivi femministi. Un movimento in cosi rapida crescita non poteva non sviluppare delle tensioni anche notevoli al proprio interno, e in effetti si verificarono conflitti tra i nuclei femministi «storici» e le donne più giovani che si erano avvicinate da poco al movimento. Non solo: da alcune parti ci si lamentò che il richiamo quasi mistico ai valori e all’autorità del movimento serviva a volte a giustificare un nuovo tipo di conformismo. Esistevano infine delle chiare rivalità tra i differenti gruppi. Come si vede, il «nuovo modo di far politica» doveva combattere con il vecchio una dura battaglia.
I contrasti, comunque, furono accantonati nel momento in cui si trattò di combattere per la legge sull’aborto. Questo obiettivo unificò con successo, in modo forse irripetibile, i diversi tronconi sociali e teorici del movimento delle donne. Nel 1970 l’aborto in Italia era illegale e punibile con il carcere fino a cinque anni, e prosperava pertanto la piaga dell’aborto clandestino, cui ricorrevano ogni anno decine di migliaia di donne. Coloro che avevano la possibilità economica di farlo andavano in cliniche all’estero; le altre mettevano a repentaglio la propria salute affidandosi a mammane, praticoni e medici compiacenti. Enorme era quindi la distanza tra morale ufficiale della Chiesa e dello Stato da una parte, e realtà sociale dall’altra.
Nel 1975 il Mld e i radicali organizzarono la raccolta di firme per indire un referendum sulla legalizzazione dell’aborto: erano necessarie 500 mila firme ma ne furono raccolte 800 mila. La mobilitazione delle donne riuscì a trasformare il tema dell’aborto da un’importante questione sui diritti civili in una vasta discussione sulla condizione femminile nella società italiana, fino a portare in piazza su questi temi 50 000 donne nella manifestazione di Roma dell’aprile 1976. Solo le elezioni politiche, indette per il giugno dello stesso anno, impedirono il regolare svolgimento del referendum.
PAUL GINSBORG
Da “Storia dell’Italia dal dopoguerra ad oggi”, Einaudi
Foto: Rete