
Mater Matuta
Feste che i Romani celebravano l’11 giugno in onore di Mater Matuta, la dea romana dell’aurora: «A un’ora fissa Matuta diffonde la rosea aurora » (Lucrezio, v 656-57). Il nome Matuta è collegato all’aggettivo matutinus.
Alle Matralie partecipavano solo le univirae, le donne sposate una sola volta. Le schiave non erano ammesse; solo una schiava era fatta entrare nel tempio della dea e poi scacciata a colpi di verga. Le matrone tenevano tra le braccia e raccomandavano alla dea non i propri figli, ma quelli delle sorelle: questa pratica rituale veniva seguita solo nelle Matralie e in riti vedici.
Dice Dumézil: «Le matrone che nelle Matralie mimano i due aspetti del servizio di Mater Matuta e quindi devono non soltanto agire ma ‘essere’ come lei, sono al tempo stesso sorelle, madri, zie, e d’altro canto adempiono a una condizione verso il marito: sono univirae. Nessun rituale romano comporta l’esigenza di tante contemporanee circostanze familiari».
Secondo un’interpretazione, l’espulsione della schiava simboleggiava la cacciata del buio; la dea poi si prendeva cura del proprio nipote, il sole.
Nella mitologia greca non esisteva una divinità con le caratteristiche di Mater Matuta: Eos, la dea greca dell’aurora, era protagonista di molti racconti ma non era oggetto di riti e di devozioni; per questo Mater Matuta fu identificata con una dea che aveva allevato il figlio di una sorella, Ino Leucotea, facendo da madre (matertera) al nipote Dioniso, rimasto orfano.
Questo accostamento fece ritenere che le matrone, durante le Matralie, tenessero tra le braccia i figli delle sorelle. Ma Ovidio (Fast, VI 561) non lo specifica, dice soltanto alterius prolem; e Plutarco (che fra l’altro, scrivendo in prosa, non subiva costrizioni metriche) usa un generico tón adèlpbon ‘dei fratelli’ (Cam. 5). Per Plutarco la schiava scacciata dal tempio non simboleggiava le tenebre, ma una schiava amata dal marito di Ino Leucotea (Plutarco non nomina la schiava, che si chiamava Anfitera, ma il mito era evidentemente noto).
Ovidio dice che Ino odiava le schiave perché Atamante l’aveva tradita con una schiava, e allude al mito greco secondo il quale Ino, per provocare la carestia, fece tostare le sementi destinate alla semina (Fast, VI 473-558). Cfr. G. Dumézil, La religione romana arcaica, Paris 1974, trad. it. Milano 1977, pp. 59-63; 299-300.
LUISA BIONDETTI
Da “Dizionario di mitologia classica” – Baldini & Castoldi
Foto: RETE