L’INQUISIZIONE di fronte all’autorità del verbo femminile …

 

 

Il 22 luglio 1529 la beata Isabel de la Cruz, terziaria francescana di Guadalajara, compare all’autodafé per essere frustata pubblicamente e condannata al carcere a vita.

Principale accusata di una serie di processi contro gli illuminati, l’Inquisizione riconosce in lei la vera ispiratrice di una corrente mistica che insegna l’abbandono a Dio, un’etica pericolosa perché suppone che questo amore conferisca l’impossibilità di peccare.

Isabel gode nella Nuova Castiglia di una straordinaria popolarità e, per colpire gli spiriti che possono aver subito la sua influenza, lo spettacolo edificante del suo castigo viene replicato in tutte le città dove ha predicato.

Si tratta di un processo celebre non tanto per la presenza di questa beata, figlia di conversos, quanto perché è il primo intentato dall’Inquisizione contro gli illuminati.

Un secolo dopo a Toledo un’altra donna, anch’essa beata, Ana de Abella, è perseguitata, arrestata e interrogata dal Santo Uffizio.

Sentiamo l’accusa:

«Dimenticando ogni timor di Dio, a rischio della sua salvezza e con disprezzo della giustizia esercitata da Vuesta Suprema con la rettitudine propria di questo tribunale, essa ha commesso un’eresia ed è eretica, apostata, mistificatrice, illuminata; ha stretto patti espliciti o impliciti col Demonio, crede in tribolazioni diaboliche, sostiene e usa proposizioni contrarie alla Santa Fede Cattolica, crede in soperchierie e in apparizioni demoniache contrariamente a quanto sostiene e insegna la Santa Chiesa Cattolica Romana (…)

«Dichiariamo che la suddetta Ana de Abella colpevole di aver perpetrato i citati delitti è eretica, apostata, illuminata, ingannatrice, simulatrice di santità, sacrilega, scomunicata, dissimulatrice provata nelle confessioni e nelle risposte agli interrogatori, falsa e simulatrice penitente, ed è incorsa quindi nella scomunica maggiore e nella confisca dei suoi beni dal giorno in cui ha commesso questi delitti.

«I suoi beni siano assegnati al Consiglio di sua Maestà e al suo esecutore in suo nome, ed essa sia affidata al braccio secolare perché venga condannata […] affinché il braccio secolare proceda all’esecuzione con tutto il rigore del diritto, nella sua persona e nei suoi beni così che questo serva di castigo per lei e di esempio per gli altri […]. Perciò chiediamo che questa imputata sia sottoposta alla tortura, affinché confessi interamente la verità su di sé e sui suoi complici. E che la tortura non si interrompa fino alla sua confessione».

Si direbbe che l’Inquisizione in un secolo non abbia affatto temperato i suoi ardori repressivi.

Contro Ana de Abella, l’eretica illuminata, il fiscale richiede la pena di morte. Al termine del processo, la sentenza ne fa invece una folle da rinchiudere nell’ospedale di Balsamo.

Per un singolare processo psicologico, l’eretica apostata si è trasformata in una individualità inclassificabile che gli inquisitori si rifiutano di giudicare e respingono in un’alterità indefinibile: la demenza.

Gli archivi dell’Inquisizione contengono molte cause di questo tipo, conservate in una serie ancora poco esplorata, quella delle ilusas e iludentes. Vi predominano i processi contro queste donne, chiamate beate, che si ritrovano in Spagna in ogni appassionata iniziativa religiosa. Di origine cittadina, esse servono Dio con un piede nel secolo, come quella beata che, anticipando l’opera riformatrice di Teresa di Avila, era andata a Roma a piedi mendicando, per chiedere l’autorizzazione di fondare dei monasteri di carmelitane scalze, mentre la santa era ancora alle interrogazioni. Teresa di Avila obbediva all’apostolo: «Come avviene in tutte le Chiese dei santi, tacciano le donne nelle assemblee, poiché non è loro permesso prendervi la parola; siano dunque sottomesse come vuole la legge» (Paolo, 1ª lettera ai Corinzi, XIV, 33-34), pur aspirando «ad avere la libertà di predicare, di confessare e di condurre le anime a Dio».

Cosi bisognerà parlare di ilusas e forzare l’anonimato del delitto, poiché qui si tratterà solo di donne.

Per tre secoli il Santo Uffizio interroga, tortura e punisce le ilusas.

Per quanto ne sappiamo, tutti i tribunali spagnoli sono in causa, tranne quelli di Galizia, Navarra, Catalogna e del regno di Valencia.

Ricerche sistematiche ci autorizzeranno forse a trarre qualche conclusione da questo particolare, perché se in queste regioni non ci furono delle ilusas, esse furono in Spagna i principali focolai di un’altra illusione: la stregoneria.

Delle donne dunque, la cui storia è ancora da scrivere.

Bisognava dar credito a Menéndez Pelayo che, circa un secolo fa, è vero, ha rifiutato di risvegliare le loro parole ritenendo: « che era preferibile lasciar dormire nell’oblio queste cause interessanti solo per lo storico del costume, il quale cerca di soddisfare una curiosità un po’ puerile». Lo storico degli eterodossi spagnoli si rifiuta di fare storia con fatterelli di donne. La storiografia su questo argomento è ricca di riflessioni di questo genere. Provengano da laici o da religiosi, da difensori o da avversari del Santo Uffizio, tutte concordano su questo tema, facendo appello a tutta la misoginia del lettore, o della lettrice: queste cause esprimono la stupidità, la confusione mentale di un sesso.

Come lo storico, l’inquisitore è uomo di lettere, così, anch’egli, chiamerà sciocchezze ciò che si trasmette solo con la parola.

Lo zelo inquisitorio che dà la parola alle ilusas prima di ricacciarle nell’oblio, comprova una volontà di sapere che lo storico ha il dovere di problematizzare.

Si tratterà dunque di dare la parola alla stupidità… e di vedere.

Non bisogna credere che al tempo delle ilusas gli spagnoli condividessero la tendenza del Santo Uffizio ad individuare la stupidità femminile. Così nel Seicento Filippo IV, debole e tormentato, è circondato di consigliere spirituali: suor Maria de Agreda, delicata epistolografa, è un’ispiratrice discreta, mentre madre Luisa de Carrion è conosciuta e venerata da tutta la Corte. Quest’ultima aveva fondato a Carrion de los Condes, nella provincia di Palencia, una confraternita (hermandad) di devoti, sostenitori dell’Immacolata Concezione di Maria, che contava, nel 1625, 40.000 seguaci fra cui Filippo IV, i suoi fratelli, l’Infanta che veniva educata presso la Descalzas reales, il principe Filiberto di Savoia, cinque cardinali e oltre 150 conventi.

Considerata santa nelle due Castiglie per i miracoli che le erano attribuiti e che tre volumi manoscritti divulgavano, la gente si disputava i brandelli dei tessuti ch’essa toccava e così le medaglie e le immagini pie che la rappresentavano.

Nel 1634, l’Inquisizione si preoccupa di questa popolarità e dell’ortodossia dei discorsi della suora. Sottoposta a processo dal tribunale di Valladolid per impostura e sortilegi (impostura y hechizos), madre Luisa da Carrion morì di morte naturale nella sua cella a settantasei anni, il 28 ottobre 1630, prima della sentenza definitiva. È così popolare che all’Inquisizione occorreranno dodici anni dalla sua condanna per distruggere il culto di cui era fatta oggetto fin nella lontana Cadice.

Le donne s’impossessano di questa moda. Donne che trovano nell’”io” della liberazione intima, una promozione individuale; non più sposa-madre, religiosa o prostituta, ma soggetto della propria scelta.

Promozione contrastata dalla Chiesa poiché le donne non hanno diritto alla parola. Teresa di Avila, dilaniata dal suo ardore autorepressivo, non sarà pubblicata se non dopo la morte grazie all’intercessione di fra Luìs de Leon in favore di un’opera considerata dannosa dall’Inquisizione. Ciò nonostante, questo modello di autorepressione che è la sua autobiografia è stato a lungo considerato un testo da non mettere in mano a tutte le donne.

Se Teresa è sfuggita all’Inquisizione, lo deve al suo rispetto e alla sua sottomissione ai confessori, alla Chiesa e alla gerarchia, molto più che ai suoi scritti in cui, suo malgrado, traspare qualcosa del mostro che la divora.

Ci furono così, alcuni decenni prima che l’ideologia della famiglia e del matrimonio cristiano orientasse e canalizzasse l’« io » femminile, delle donne che si impadronirono della fede e in essa si espressero; individualità non classificabili che gli uomini del loro tempo hanno ascoltato, chiedendo loro di «rappresentare certe forme di compromessi irrealizzabili sul piano collettivo, di fingere transizioni immaginarie, di incarnare sintesi incompatibili».

Sarebbe bene sfumare una tale affermazione.

Le beate che, nella prima metà del Cinquecento, ispirano in parte l’illuminismo, vivificate dal pensiero erasmiano, autentiche consigliere rispettate dall’élite teologica del tempo, rassomigliano poco a quelle che, due secoli dopo, rispondono al bisogno del meraviglioso e del prodigioso di un popolo che, abbandonato ai riti spettacolari, confonde spesso fede e superstizione.

Ma è anche vero che, nei loro riguardi, l’interesse dell’Inquisizione non è mancato.

Le ilusas perseguitate sono proprio queste individualità inclassificabili, per la maggior parte beate, senz’altra protezione all’infuori della loro reputazione di santità che le fa oggetto di venerazione e quindi sospette allo zelo dell’inquisitore.

Nel 1511, la beata di Piedrahita, ritenuta da tutti santa, viene perseguitata dall’Inquisizione per illuminismo. Di spirito contemplativo, essa cade in lunghe estasi e sostiene di parlare così con Cristo la cui madre non l’abbandona mai. La sua causa viene sospesa, sia perché il Santo Uffizio non riesce a individuare l’errore nelle sue parole, sia perché essa gode di alte protezioni.

 

BARTOLOME’ BENNASSAR

Da “Storia dell’Inquisizione spagnola”  – Rizzoli

Foto: RETE

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