L’opera di oggi: EFFETTI DEL BUON GOVERNO, di Ambrogio Lorenzetti

 

Non è certo un caso se dopo la pittura romana, per più di mille anni (più di mille anni…), la rappresentazione della natura, nell’arte occidentale, di fatto scompare. Non accade nulla di simile all’arte cinese, evidentemente, nella quale, prima dell’Anno Mille, la cultura buddhista crea altissime immagini del respiro placido del paesaggio, che vive in sintonia con il destino dell’uomo. Approdo filosofico e religioso, prima ancora che visivo. Nella civiltà buddhista, l’uomo guarda la natura per trovare illuminazioni che guidino, con saggezza e armonia, la propria vita terrena, e forse non solo terrena.

In Occidente, per più di mille anni, l’uomo non rappresenta la natura perché la natura è avvertita come nemica, un referente insidioso da cui è necessario difendersi. Una entità ostile, che va governata; il grande avversario contro cui è necessario manifestare e dispiegare la propria forza.

La prima superba rappresentazione naturale della pittura europea vive in uno degli affreschi del Buono e cattivo governo di Ambrogio Lorenzetti (1285-1348), realizzato negli anni fra il 1338 e il 1340.

Va segnalato, anzitutto, che un atteggiamento nuovo verso la natura si manifesta già nella predicazione e nel pensiero di san Francesco, che assegna a ogni esistenza, animale o pianta, una suprema dignità, in quanto creatura di Dio, di cui riflette la bellezza e la nobiltà: «Diceva al frate ortolano di non riempire tutto lo spazio di verdure commestibili, ma di lasciarne libera una parte perché producesse erbe spontanee che al loro tempo producessero i fratelli fiori. Usava dire che il frate ortolano doveva anche riservare da qualche parte un bell’orticello dove piantare tutte le erbe profumate e tutte le piante che producono fiori belli. Le corolle, una volta sbocciate, infatti, avrebbero invitato chiunque le guardasse a lodare Dio, dato che ogni creatura dice e grida: “Dio mi ha fatto per te, o uomo!”».

Su queste straordinarie basi, potremmo dire filosofiche, entra in campo l’immagine figurativa. «Il Trecento è il secolo più grande della pittura italiana», sosteneva Roberto Longhi. Il Trecento genera una pittura libera e grande perché viene concepita in una società libera e aperta. Ambrogio Lorenzetti è, con Giotto, il pittore più originale del secolo. I suoi interessi sono vastissimi; la sua curiosità incredibilmente moderna si appunta sia sulla realtà visiva della sua terra sia sui temi sacri. A lui dobbiamo il primo grande paesaggio dipinto dopo l’antichità, la prima rappresentazione panoramica di un’intera città, e forse il primo esempio di una composizione prospettica con un unico punto di fuga.

Tutto ciò viene realizzato su tre pareti della Sala dei Nove nel Palazzo Pubblico di Siena. I Nove sono i magistrati più importanti della città, e i dipinti intendono proporsi come un monumento alla saggezza del loro governo. Siena si vanta di avere la più grande piazza pubblica, il più grande ospedale, la più grande pala d’altare (la Maestà di Duccio di Boninsegna), e mentre Ambrogio lavora nel palazzo viene deciso di ricostruire il duomo, e di farne la più imponente cattedrale dell’intera penisola.

Tale poderoso orgoglio civico emana dalla veduta panoramica di Siena e del suo territorio, opulenti e felici sotto il buon governo della città. Ambrogio Lorenzetti è il primo a innalzare un tema secolare allo stesso livello di grandiosità dei temi sacri. Il perché di tanto azzardo è facile da spiegare. Nessun altro pittore del tempo può vantare la sua ampiezza di visione, il suo coraggio intellettuale e la sua prodigiosa maestria realizzativa nella rappresentazione a momenti «stenografata» del particolare realistico. Così, una complessa allegoria politica diventa uno spettacolo visivo di stupefacente effetto morale.

Il pennello di Ambrogio è straordinariamente duttile. Nelle grandi figure, sente la possanza della pittura fiorentina, e «scolpisce» corpi e fisionomie. Ma nel paesaggio, l’abbiamo già detto, stenografa. Ogni particolare è eseguito con una pennellata speciale e ogni volta diversa: aggrovigliata e «puntinista» nelle zone verdeggianti; ondeggiante, gialla e dorata nei campi di grano. Ma poi dovremo seguire il maiale che trotterella verso il mercato, lo schiavo moro che accompagna i padroni nella caccia col falcone, il mendicante cieco abbandonato sul ciglio della strada, il gallo allarmato dai battitori, una pastorella col gregge, il fagiano, un cane che insegue la lepre sulle pendici della collina…

A tanta meravigliosa «verità» arriva la pittura del Trecento.

Quando si dice i secoli bui del Medioevo! Questo è l’esatto momento nel quale il «pensiero in figura» occidentale, con uno scatto ideativo di indicibile potenza, torna ad agganciare la realtà: non solo la realtà fisica e psicologica dell’uomo (questo è un traguardo già toccato da Cimabue e da Giotto), ma la realtà naturale, la natura visibile, che da questo momento diventa il secondo referente, con la realtà fisica della creatura umana, per cercare un senso all’esistenza su questo pianeta.

 

FLAVIO CAROLI

Da “Il volto e l’anima della natura” – Mondadori

Foto: RETE

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