La musica in Grecia

 

Quando si parla di musica greca, più che alla musica in sé, della quale poco o nulla rimane, si accenna piuttosto alla concezione che della musica ebbero i Greci, concezione trasmessaci attraverso un complesso di notizie leggendarie, storiche o letterarie.

Se anche non si aggiungessero gli scritti filosofici e politici a provarci l’importanza della musica tra i Greci, basterebbero le antiche leggende, come testimonianze del potere immenso che le veniva attribuito. Orfeo che trascinava i sassi, le piante e le belve col suo canto; Anfione che costruì le mura di Tebe a suon di musica; Arione, che i delfini, evocati dal canto, salvarono dalla morte cui l’avevano condannato i pirati: ecco alcune di queste leggende, tutte concordi nell’assegnare alla musica un potere quasi soprannaturale, potere non soltanto emotivo, ma addirittura di fascinazione — paralisi o eccitamento – delle facoltà volitive. E la loro singolare testimonianza è confermata dagli scritti posteriori dei massimi filosofi greci. Tanto che vien fatto di supporre che i Greci possedessero una sensibilità musicale enormemente maggiore della nostra, e quasi si è tentati di cercare una ragione fisiologica di questo fenomeno.

Tanto più che la musica greca, per quel poco che ce ne resta (sette canti e alcuni frammenti), non pare dovesse essere molto progredita, anzi ci appare in uno stato piuttosto rudimentale. Povera di strumenti (che con poche varianti si riducevano poi tutti a due tipi, uno di strumento a fiato, lαυλος  [flauto];, e l’altro di strumento a corde, la lira), priva di qualsiasi nozione di armonia, essa aveva un fare timido ed esitante: la melodia si muoveva a piccoli intervalli, con frequenti ritorni sulla nota centrale, quasi timorosa di smarrirsi; scarsa la vivacità del ritmo, legato strettamente alla recitazione secondo gli schemi metrici della poesia.

Si è stabilito che l’elemento primario della musica era il tetracordo, cioè un insieme di quattro suoni, comprendenti due toni e un semitono, e che si usarono, col tempo, successioni di due tetracordi uguali, cioè aventi il semitono nella stessa posizione: l’assieme di due tetracordi formava un’armonia, corrispondente, all’incirca, a una nostra scala discendente. Ma, mentre la nostra sensibilità moderna si è ridotta a percepire soltanto due modalità della scala, cioè maggiore e minore, i Greci invece ne conoscevano tante quante erano le posizioni che poteva assumere il semitono nell’interno del tetracordo, ed ognuna distinguevano col nome della regione ove era stata prima usata. Le armonie lidia, frigia, dorica avevano il semitono rispettivamente in prima, seconda, terza posizione; successive elaborazioni portarono alla creazione di modi derivati: ipolidio e iperlidio, ipofrigio e iperfrigio, ipodorico e iperdorico. Appunto questi nove modi costituivano il genere diatonico, il più semplice e facile d’esecuzione; più tardi, con l’affinarsi della sensibilità psicologica e musicale, il numero dei semitoni aumentò nell’uso dei musici più arditi e novatori, e l’intervallo di quarta giusta in cui è contenuto il tetracordo venne diviso in maniera sempre più irregolare e, si direbbe, cervellotica. Si formò il genere cromatico, nel quale il tetracordo è costituito da un intervallo di terza minore e due semitoni, sopravanzato a sua volta da quello enarmonico, nel quale il tetracordo si suddivide in un intervallo di terza maggiore e due quarti di tono. Ciò avvenne ad opera di artisti raffinati, quali Timoteo ed Euripide, che Aristofane deride per le loro « futuristiche» riforme musicali.

Questi due generi, frutto di particolari condizioni di civilizzazione superintellettuale, non vissero a lungo, nonostante il grande rumore polemico che produssero, e furono superati in durata dal genere diatonico.

Com’è noto, musica e poesia furono strettamente unite in Grecia: da Omero, rappresentato come cantore cieco accompagnantesi sulla cetra, fino ai lirici, parole e musica nacquero contemporaneamente dal cuore di un solo artista; raramente esse furono disgiunte: probabilmente la poesia gnomica, come sostiene il Fraccaroli, per il suo carattere pratico, fu separata dalla musica. Questa poi si sa che veniva eseguita anche da sola, sì che il nomos (pezzo di musica) veniva detto citaristico o auletico se per cetra o flauto soli, citarodico o aulodico se uno di questi due strumenti accompagnava la voce umana, ripetendone il canto all’acuto, con intervallo di un’ottava o di una quinta.

Intanto acquistava importanza e si avviava a perfezione la danza, l’arte che esprime i sentimenti per mezzo del gesto: come accadde che poesia, musica e danza si unissero in un solo complesso artistico, da cui si sviluppò la tragedia? […]

È certo che la tragedia ha origine religiosa, dal sacrificio di un τραγος, caprone, sull’altare del dio Dioniso, del quale un sacerdote narrava le vicende terrene. Questo racconto cantato, chiamato ditirambo, andò man mano evolvendosi, fino a perdere ogni rapporto con Dioniso e il suo culto; divenne semplicemente un racconto, dialogato tra un personaggio e un coro, di qualche fatto leggendario, come si vede in Bacchilide. Di qui alla tragedia il passo è breve, ma rimane pur sempre da spiegare l’origine del coro, che, certamente, sulle prime era il vero protagonista della tragedia, e andò poi man mano perdendo importanza. Allora si suppone, tirando in campo anche il fatto che Dioniso era dio dell’ebbrezza e dell’esaltazione artistica, che la folla attorniante il sacerdote o dicitore, in preda ad una mistica eccitazione, commentasse con canti e danze la narrazione del sacerdote, cioè la cerimonia religiosa. Ne viene quindi che in origine la visione scenica fu solo immaginata, ma non esistette in realtà; che la prima, unica realtà della tragedia fosse il coro, e che solo più tardi si sia pensato di approfittare dello stato di esaltazione mistica della folla per presentarle un attore mascherato da Dioniso; questo spiegherebbe anche la posizione del coro greco, nell’orchestra e non sulla scena. Tutto ciò immaginò il Nietzsche, aggiungendovi una speciale interpretazione filosofica, tendente a dimostrare la vecchiaia e decadenza del popolo ellenico.

Per lui Dioniso simboleggia la «volontà primigenia di esistere» in contrasto con la caducità dell’individuo: l’emozione dionisiaca sarebbe quindi l’emozione artistica per cui l’individuo si distrugge in seno all’universale lirico dell’arte, eternandosi come sentimento puro: ora la tragedia sarebbe appunto l’aspirazione dell’individuo in estasi (coro) verso la visione sognata di un mondo apollineo eterno (la scena).

Comunque si voglia giudicare la teoria del Nietzsche nel suo complesso, è certo che ci si deve mantenere sulle sue tracce per spiegare l’origine del coro, il quale, spogliato delle soprastrutture filosofiche impostegli dalla concezione del Nietzsche, rimane, come definisce Romualdo Giani, «l’espressione… degli affetti che suscita negli animi… la vicenda». Un primo passo in avanti si fece quando questa vicenda, invece d’essere narrata, fu rappresentata; da uno (Tespi) poi due (Eschilo) e tre (Sofocle) attori; infine con Euripide la musica e il canto passarono dal coro alla scena, con che l’importanza del coro andò sempre più scemando (e non vi furono estranei motivi d’ordine pratico, come l’alto costo necessario per istruire e tenere preparati i cori richiesti per gare drammatiche).

Il Giani attribuisce molta importanza ad Euripide come riformatore della musica tragica, distruttore delle antiche forme strofiche, adatte solo ai commenti corali, che erano una pausa dell’azione, una riflessione sentimentale dell’episodio, e istituisce quindi un parallelo tra Euripide e Wagner, che per rinnovare la musica da teatro dovettero ricorrere entrambi a quella non legata alla finzione scenica, e procedettero entrambi con la stessa gradazione, prima tentando di rinnovare le antiche forme, poi distruggendole e creandone altre nuove. Secondo il Giani, Euripide ricondusse la musica, portandola sulla scena, al suo primo e più vero dominio, quello dell’inconscio: essa coglie, cioè, i sentimenti nelle loro origini più profonde, in quello che hanno di più astratto e quindi di più sostanziale e immutabile: rappresenta non gli oggetti della passione, ma i moti di essa; perciò, spontaneamente congiunta con la parola e col gesto, è adattissima a colorire le passioni dei vari personaggi. È presumibile, quindi, che passando sulla scena essa abbia perso gran parte della sua staticità e simmetria, e sia diventata qualche cosa di più fluido, scorrevole e mobile.

 

MASSIMO MILA

Da “Breve storia della Musica” – Einaudi

FOTO: Rete

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