Durante l’autunno caldo […] la protesta urbana meridionale, tranne poche eccezioni, ebbe un carattere municipalista e corporativo, guidata dall’estrema destra e subordinata alla cultura politica dominante. Dal 1973 in poi, in, netto ritardo rispetto al Nord, si manifestarono i primi tentativi per spezzare questo modello.
Il movimento napoletano dei disoccupati organizzati fu l’esempio più sorprendente di questa nuova realtà. Nel 1973 era esplosa a Napoli una epidemia di colera, che aveva causato parecchi morti; nei quartieri popolari del centro, dove dominavano ancora i bassi, nacquero i comitati di quartiere, i quali chiedevano la costruzione di un sistema fognario adeguato ed elementari misure di igiene pubblica e privata; da questi comitati si sviluppò il movimento dei disoccupati organizzati.
Napoli aveva uno dei peggiori primati di disoccupazione in campo europeo. In assenza di una struttura industriale sviluppata, le classi meno abbienti di questa grande città (nel 1971 la popolazione era di 2 700 000 abitanti) vivevano ancora come nel 1945: di commercio al minuto, contrabbando, furti, lavoro domestico, ecc. Nel 1977, secondo la Camera del lavoro, solo il 28,3 per cento della popolazione attiva aveva un lavoro regolare. I disoccupati, nello stesso anno, ammontavano ufficialmente a 170 000, ma questa cifra non deve trarre in inganno, poiché molti avevano un. qualche lavoro, anche se precario o a metà tempo. Contemporaneamente, il numero dei sottoccupati era molto più elevato di quanto suggerivano le cifre ufficiali; i ceti più poveri dipendevano pesantemente, per ottenere un lavoro regolare, da rapporti clientelari.
Il movimento dei disoccupati organizzati cercò di spezzare questa realtà; compilò esso stesso, al posto del corrotto ufficio di collocamento, una lista dei disoccupati dando la priorità a coloro che avevano più bisogno e a quelli che erano stati più attivi nella lotta, giorno dopo giorno, per il posto di lavoro. Il movimento si organizzò su base democratica, con delegati da ogni quartiere e un comitato direttivo cittadino. I primi 700 dei disoccupati organizzati riuscirono, dopo una lunga lotta, ad ottenere dall’assessorato ai Lavori pubblici del Comune un lavoro regolare come manovali. Il movimento ottenne anche il riconoscimento, pur con grande difficoltà, dai sindacati, e in parecchie manifestazioni comparve la bandiera della Cgil-Cisl-Uil. Spronato da questi successi iniziali, il movimento si diffuse rapidamente raggiungendo il culmine nel 1975-76 con circa 15 000 aderenti. I maoisti del Partito comunista d’Italia (marxista-leninista) e Lotta continua furono i più attivi tra i disoccupati, mentre il Pci si mantenne sempre in una posizione piuttosto defilata.
La forma più consueta di protesta del movimento si attuava con ripetute manifestazioni che bloccavano il traffico per parecchie ore e finivano in scontri con la polizia. «Non possiamo fare sciopero, non possiamo bloccare la fabbrica, – dicevano i disoccupati, – per ora la nostra fabbrica è la strada e come gli operai bloccano la produzione noi blocchiamo il traffico». Ci furono anche numerose occupazioni di uffici municipali, mentre gli appelli agli operai dell’Alfasud perché interrompessero il lavoro straordinario non diedero i frutti sperati.
La più efficace scelta del movimento fu forse lo sciopero a rovescio di una settimana che ebbe luogo al nuovo Policlinico di Napoli. Nel cuore di un settore moderno e cittadino venne ripresa una forma di lotta adottata nei tardi anni ’40 dai braccianti agricoli. Duecento disoccupati organizzati, fra i quali sessanta donne, per attirare l’attenzione sulla drammatica insufficienza di personale dell’ospedale, andarono al lavoro per una settimana assieme alle persone regolarmente assunte.
Il movimento ebbe, comunque, molti punti deboli. I criteri con cui si formavano le liste – la presenza soggettiva nelle lotte e i bisogni oggettivi – spesso erano in contrasto fra loro. Si verificò anche una rigida discriminazione nei confronti delle donne disoccupate: quelle che partecipavano attivamente al movimento e alle assemblee erano talvolta etichettate come «puttane». L’ignoranza e la bigotteria, di quella che un disoccupato napoletano definì «questa società di lupi», non poteva scomparire dal mattino alla sera. Vi fu più di un caso di corruzione, e spesso il desiderio individuale per un’occupazione regolare ebbe la meglio sulla fedeltà al movimento.
Malgrado questi difetti, i napoletani riuscirono tuttavia a costruire un movimento di massa dei disoccupati che in Europa non era secondo a nessuno, ed è ancor più degno di nota se si tiene conto delle tradizioni politiche della città. I disoccupati organizzati non combattevano solamente la base clientelare e politica dalla quale dipendevano le opportunità d’impiego, ma si battevano anche, come aveva fatto Di Vittorio con i braccianti agricoli meridionali, contro il controllo padronale sul mercato del lavoro. Essi crearono cosi, sia pure temporaneamente, una solidarietà molto forte tra una parte dei sottoccupati della città: «si scopriva che i propri problemi segreti erano quelli degli altri».
Il movimento dei disoccupati fu solo la più significativa delle lotte collettive che ebbero luogo a Napoli nel 1975-76. Anche qui si diffuse l’autoriduzione e migliaia di famiglie si rifiutarono di pagare le bollette dell’elettricità; si verificarono anche parecchie occupazioni di case, sia private che pubbliche; centinaia di invalidi e handicappati della città si organizzarono per la prima volta per difendere i loro diritti e furono in testa alla tradizionale sfilata del ic maggio del 1976″.
L’altra capitale del sud, Palermo, non vide una simile mobilitazione, ma anche li la solida presa della De e della mafia sembrò per un attimo vacillare. Il terremoto che aveva distrutto il Belice nel 1968 ebbe effetti disastrosi anche sul centro storico di Palermo, lasciato da sempre in uno stato di completo degrado dalle numerose amministrazioni democristiane.
Nel 1974 la popolazione del centro, che nel 1945 ammontava a 200 000 persone, era scesa a circa 50 000. Dopo il terremoto del 1968, una prima ondata di occupazioni di case aveva costretto il prefetto ad assegnare agli occupanti edifici pubblici vuoti. Nell’autunno del 1975 vi fu una seconda ondata, allorché centinaia di famiglie, provenienti in gran parte dal centro storico, ma anche dalle baracche della periferia, occuparono edifici pubblici e privati con l’appoggio dei gruppi rivoluzionari.
La forza trainante dell’azione era rappresentata dalle donne dei quartieri popolari. Il 10 novembre 1975 venne proclamato lo sciopero generale: anche il Pci fu d’accordo con la giornata di lotta e una grandiosa manifestazione attraversò il centro della città.
Il movimento per la casa non sopravvisse a lungo, né ottenne qualche risultato di rilievo. Era difficile, in realtà, organizzare una città caratterizzata, come ha scritto Chubb, «da un’estrema frammentazione sociale ed economica e dall’assenza di qualsiasi struttura associativa che potesse servire come polo di aggregazione per la popolazione».
Le nuove case popolari costruite alla periferia della città (il quartiere Cep venne completato nel 1967 e quello Zen nel 1968-71) servirono solo a rafforzare il senso di disperazione degli abitanti. Nei bassifondi del centro storico c’era, per lo meno, una solidarietà di vicolo; qui invece si viveva in una sorta di ghetto, isolato dal resto della città e privo di tutti i servizi essenziali: dall’illuminazione pubblica ai negozi, dalle scuole alla raccolta della spazzatura. Talvolta, trattandosi di inquilini che avevano occupato abusivamente, si rimaneva privi di elettricità e acqua corrente. Questi quartieri costituiscono l’esempio estremo dell’atomizzazione, dell’alienazione e dell’isolamento che hanno caratterizzato la costruzione di case popolari nell’Italia contemporanea: «Ci hanno mandato qui a morire… siamo stati abbandonati nel deserto, deportati su un’isola come nell’età della pietra, peggio che in un cimitero».
PAUL GINSBORG
Da “Storia d’Italia dal dopoguerra ad oggi” – Einaudi
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