Auschwitz, specchio della coscienza individuale e collettiva

 

La storia del nostro secolo ha prodotto un simbolo in grado di travalicare la storicità e la concretezza proprie dell’evento stesso e, pur conservando intatta tutta la forza e l’evidenza del dato, ne ha fatto emergere un significato universale che va al di là del tempo e di tutti i suoi aspetti contingenti. Il simbolo è costituito da un nome, e il nome è Auschwitz. Attraverso questo simbolo o metafora, o specchio della coscienza individuale e collettiva ogni uomo viene prepotentemente posto di fronte al limite stesso della sua esperienza vitale, esperienza intesa sia come specifica singolarità del vissuto, sia come appartenenza alla generalità della condizione umana al di fuori delle sue componenti storiche e culturali.

Il confronto con il limite, con l’insondabile mistero che si trova nel fondo oscuro di ogni uomo, nella nostra storia contemporanea ha assunto un’evidenza assoluta e ineludibile, costringendo ciascuno a interrogarsi su se stesso e sul destino collettivo della specie umana. A questa domanda fondamentale non si possono dare risposte precostituite, non ci sono astrazioni concettuali da opporre né schemi ideologici ai quali aderire. Nessun riferimento agli aspetti tradizionali dell’uomo e del mondo, nessuna risposta prefabbricata è in grado di rassicurare, di spiegare, di risolvere tutti i misteri. La stessa idea di Dio ha subito un mutamento radicale esigendo un confronto più diretto con la realtà umana, una revisione dello stesso concetto di divinità e di trascendenza. Basti pensare a tutta la teologia contemporanea, da Metz, a Tillich, a Bonhoeffer, a Jonas, a Buber, a Lévinas, per capire quale profondo sforzo di rifondazione e di ricomprensione sia stato necessario per pronunciare ancora, da parte dei nostri contemporanei, il nome di Dio senza autoinganni né scissioni interne. Oltre alla teologia ogni altra visione del mondo e degli uomini è stata sottoposta a revisione e pur assumendo forme specifiche proprie di ciascuna disciplina, riflette una ricerca universale, una domanda comune che sta a fondamento della condizione umana e del suo possibile destino. Questa domanda unisce la teologia alla filosofia, alla psicologia, alla sociologia, all’antropologia, le cosiddette scienze di “confine”, che dal confine che assieme le unisce e le separa perdono la loro caratteristica di saperi chiusi in se stessi in un’orgogliosa forma di autoalimentazione, e ricavano nuovo alimento attraverso il reciproco scambio e dialogo.

Per gli uomini del XX secolo, e forse anche per quelli del successivo, Auschwitz è il nome stesso del male nella sua forma meno occultata, più radicale, che ha dato l’impronta della tragedia e del fallimento alle nostre più radicate certezze sulla natura dell’uomo e della civiltà e che ha impedito ogni tentativo di composizione, facendo crollare le categorie filosofiche e religiose tradizionali entro le quali l’uomo occidentale si sentiva custodito e al sicuro. È da Auschwitz che nascono nuovi modi di pensare, che hanno sostituito la ricerca al possesso sicuro della verità, la consapevolezza della pluralità degli uomini all’affermazione di princìpi che devono essere validi per tutti, il dialogo alla chiusura autoritaria.

“Ci sono epoche – dice Martin Buber – in cui l’uomo possiede una sua dimora e quelle in cui ne è senza. Nelle prime l’uomo abita il mondo come se abitasse una casa, nelle altre è come se vivesse in aperta campagna e non possedesse neppure i quattro picchetti per alzare una tenda”.

Con Auschwitz è iniziata l’età dell’inquietudine e del dubbio, della consapevolezza che il male, quello fisico e quello metafisico, quello subito e quello inflitto, quello diretto contro se stessi e quello riversato sugli altri, nella sua enorme diversità di manifestazioni, nella sua possibilità di presentarsi in situazioni appartenenti a ordini e condizioni disparate può improvvisamente fare irruzione nella vita del singolo e nella storia, causando la frantumazione della realtà sia interna che esterna, portando con sé l’esperienza della labilità e del rischio, dell’impossibilità da parte dell’uomo di dominare se stesso e le cose. Ma l’esperienza più terribile, alla quale spesso anche gli uomini più consapevoli cercano di sottrarsi, è l’oscura consapevolezza di essere esposti non solo al male che bisogna subire da parte degli altri ma anche a quello che può nascere, in particolari circostanze, dal fondo melmoso e oscuro di ciascuna esistenza.

Da quanto detto finora, possiamo rintracciare nel confronto col male le caratteristiche di quella che Jaspers ha chiamato la situazione limite, termine che è ormai entrato diffusamente nel linguaggio che riguarda la psiche e che si riferisce a quegli eventi particolari di fronte ai quali la vita umana si trova esposta e impotente in una condizione di fallimento della ragione, di impotenza della volontà nella quale l’individuo rischia di essere travolto.

Dall’esperienza del “naufragio”, sempre secondo il linguaggio jaspersiano, ci si può salvare, perché è possibile, superando i limiti entro i quali l’esistenza empirica si trova rinchiusa, attingere a una dimensione sovraordinata, nella quale si sostituisca la ricerca di spiegazioni e di cause alla possibilità di aprirsi al senso. Cercare il significato, e non i come e i perché, significa rinunciare a ogni atteggiamento classificatorio, a ogni possibilità di dominare la realtà in modo stabile e oggettivo e accettare la problematicità, la continua apertura della prospettiva, ma soprattutto significa sapere che in questo confronto deve impegnarsi la personalità nella totalità delle sue funzioni psichiche e nell’interezza della sua esistenza.

La conoscenza del male non si può cristallizzare, ma chiama continuamente in causa, richiede vigilanza, umiltà, spregiudicatezza, la presenza totale dell’individuo, anche nelle sue componenti temporali: Hannah Arendt direbbe della natalità e della mortalità, della memoria e del progetto, attualizzati nel presente.

 

ELEONORA D’AGOSTINO TREVI

In “IL MALE” – Raffaello Cortina Editore

FOTO: Rete

 

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