In confronto all’uso puramente voluttuario e pratico che della musica fecero gli antichi romani (teatro, pantomime, conviti, oppure funzioni e parate militari), il cristianesimo ne introdusse una concezione ben più alta e spirituale. Non che, in fondo, l’impiego del canto nelle cerimonie ecclesiastiche non fosse in origine anch’esso un accorgimento pratico: per unire i fedeli all’officiante e farli partecipare alla cerimonia con le loro risposte alle parole del prete. Ma la destinazione sacra non tardò ad improntare la musica stessa, piegandola a sensi di solenne e sublime misticismo, facendola capace di dar forma artistica al sentimento del divino, del misterioso, del celeste.
S’intende con la designazione di canto gregoriano tutto il complesso della musica fiorita durante il Medioevo in seno alla Chiesa, dalle origini del cristianesimo fino alle origini della polifonia, quindi dell’umanesimo: musica vocale monodica, inquadrata negli schemi della liturgia cattolica. San Gregorio Magno, che le diede il nome, compì opera di codificazione e di sintesi e, insieme, di severo richiamo alla correttezza liturgica, quando — sotto l’influsso delle molteplici attività umane che durante il Medioevo trovavano sede nella Chiesa, e per la lenta opera di adattamento alle lingue volgari che stavano per manifestarsi – elementi profani o esotici minacciarono di corrompere la purezza di tale canto. Gregorio, quindi, non solo compose alcuni canti nuovi, ma tutti i preesistenti rivide e radunò in una specie di summa, l’Antiphonarius Cento, che, legato con una catena d’oro all’altare di San Pietro, andò poi perduto durante le invasioni barbariche; ma copie ne furono tratte e diffuse nei paesi europei, specialmente in Inghilterra, Francia e Svizzera, dai predicatori e dai sovrani desiderosi, come Pipino e Carlo Magno, di soffocare i conati d’originalità e d’indipendenza delle loro terre nell’universalità del rito romano. Così, qualunque conto si debba fare della leggenda dei due cantori Petrus e Romanus che, inviati dal papa Adriano I a Carlo Magno (790), si sarebbero fermati l’uno a Metz e l’altro nell’abbazia svizzera di San Gallo, dando origine a due famose scuole di canto gregoriano, certo è che le varie manifestazioni successive, nei vari paesi, rivelano le tracce d’una fonte unica e, per così dire, autorizzata. Inoltre, papa Gregorio perfezionò le scuole di canto sacro già esistenti in Roma e costituì la grande Schola Cantorum annessa al Vaticano, che per quasi un millennio rimase la sede autorevole e indiscussa, il cui insegnamento del canto liturgico faceva testo nel mondo conosciuto.
Sviluppo e forme del gregoriano.
Ma che cos’erano queste melodie, questo complesso di canti che Gregorio codificò e trasmise ai posteri, e che cosa divennero dopo di lui?
Si distinguono, alle origini della liturgia cristiana, due modi, due principi di canto, che gli antichi definirono coi nomi di accentus e concentus, e che corrispondono, grossolanamente, ai principi rispecchiati rispettivamente nel recitativo e nell’aria; essi determinarono, col loro alterno prevalere, tutte le seguenti forme di gregoriano.
L’accentus, o canto sillabico, fu indubbiamente la prima forma di canto sacro, e consiste semplicemente nella recitazione espressiva e cadenzata delle preghiere: a ogni sillaba corrisponde una nota, e, salvo le cadenze finali, in genere la recitazione si svolge tutta su una medesima nota a lungo ripetuta (salmodia). Se un sacerdote (praecentor) recita ad alta voce la preghiera e la massa dei fedeli riprende solo le parole di chiusa, si ha il responsorio, forma antichissima di preghiera collettiva, passata direttamente dagli ebrei ai cristiani e tenacemente praticata e imposta da Roma contro le influenze orientali. Infine, se la recitazione salmodica delle preghiere avveniva tra due cori alternati si aveva l’antifona, le cui prime notizie si hanno verso il 350 in Siria; sant’Ambrogio l’introdusse nella Chiesa milanese e papa Celestino I (422-32) in Roma.
Ma, accanto a questa severa forma di recitazione (salmo, antifona, responsorio) di testi tratti esclusivamente dalla Sacra Scrittura, una fioritura di veri e propri canti avveniva frattanto in Siria e nell’Asia Minore, nei quali la melodia si allontanava arditamente dalla monotonia della recitazione sillabica, si curvava in frasi sinuose e appariscenti e, fatto nuovo, reclamava testi propri, appositamente composti (inni], i quali mostravano evidente, nel loro latino corrotto di decadenza, nell’uso delle rime e dell’accento, il trapasso della poesia dalla classica metrica quantitativa a quella moderna, fondata sulla distribuzione degli accenti nel verso. Tale nuovo aspetto della lingua, fondato sull’accento, anziché sulla quantità, assai meno musicale in sé, consentiva appunto per questo un’indipendenza metrica del suono assai maggiore che nel canto vincolato alla durata delle sillabe lunghe o brevi e ai gruppi ritmici (piedi) della poesia classica greco-latina. La musica può foggiarsi a poco a poco una sua peculiare misura dei suoni, indipendente dalla lingua, e con questo si apre all’irrazionale, all’infinito.
A sant’Efrem si fa risalire l’origine siriaca dell’innodia cristiana, mentre a san Gregorio di Nazianzio, patriarca di Costantinopoli (380), si attribuisce il merito d’averla introdotta nell’Asia Minore. Ilario, vescovo di Poitiers, introdusse nell’Occidente la pratica degli inni, e sant’Ambrogio la coltivò attivamente, facendone largo uso, insieme alla salmodia antifonica, nel rito che da lui prese il nome di ambrosiano per designare il complesso di usi liturgici della Chiesa milanese, potente antagonista, fino all’unificazione gregoriana, del rito romano. Benché sant’Ambrogio si mantenesse più degli innografi bizantini fedele alla metrica quantitativa della poesia classica, tuttavia la libertà melodica degli inni crebbe rapidamente, insinuandosi nelle antifone e nella messa e, soprattutto, annidandosi come in proprio stabile regno, negli Alleluja che si cantavano dopo la lettura dell’Epistola, nel Salmo graduale. Qui sparivano le parole, che costituiscono naturalmente la principale ragion d’essere di un canto che voglia essere anzitutto preghiera, e la voce liberamente vocalizzava, cioè si spiegava in amplissima e ornata melodia, poggiata unicamente sulle sillabe della parola Alleluia. Definitiva l’interpretazione che di questi giubili alleluiatici
(jubilationes) diede sant’Agostino: « Qui jubilat non verba dicit, sed sonus quidem est laetitiae sine verbis… Gaudens homo in exsultatione sua ex verbis quibusdam, quae non possunt dici et intelligi, erumpit in vocem quandam exsultationis sine verbis; ita ut appareat, eum ipsa voce gaudere quidem, sed quasi repletum nimio gaudio, non posse verbis explicare quod gaudet»(1).
Fu in questo fervore di canti ispirati che intervenne da Roma la riforma gregoriana a porre ordine, a sfrondare, a limitare, a uniformare secondo la severa tradizione della salmodia romana, non appena il cristianesimo uscì dalla clandestinità e potè così provvedere a darsi un assetto unitario, coordinando le iniziative disparate dei singoli gruppi di neofiti. E l’opera fu continuata dai sovrani francesi che cercavano nel papa un appoggio per ridurre all’obbedienza i loro popoli, e si opposero all’espansione libera del rito gallicano. Ma inni e giubili rappresentavano la voce stessa dei popoli che andavano ritrovandosi nei frammenti dell’impero romano, e inni famosi composero ancora l’italiano Claudiano Mamerto, morto nel 472, autore del Pange lingua, e Venanzio Fortunato, morto nel 600, autore del Vexilla regis prodeunt; una rifioritura di inni, popolari, metrici, soggettivi, si ebbe in Grecia nel secolo Vlll.
Quanto ai giubili, non ci si può nascondere che essi manifestavano, sì, l’entusiasmo dell’anima esultante nella fede, secondo la poetica interpretazione di sant’Agostino, ma anche l’insinuarsi dell’ambizione virtuosistica in una casta di cantori specializzati, man mano che, dopo la fine delle persecuzioni, la Chiesa passa dall’originario ordinamento democratico a un accentramento autoritario, e la massa dei fedeli viene sempre più allontanata dalla pratica diretta del culto. Più tardi i giubili daranno origine a tutta la seconda fase del canto gregoriano, ad opera, pare, del monaco Notker dell’abbazia di San Gallo, detto, a causa d’un suo difetto, balbulus. Notando la difficoltà di ritenere a mente le esatte melodie delle jubilationes, egli pensò – probabilmente dopo averne avuto un rozzo esempio da un monaco sfuggito alle persecuzioni barbariche di Jumièges — di riempire, farcire con versi sillabicamente corrispondenti le note che costituivano tali interminabili vocalizzi: e così nacque la sequenza, che con le forme affini della prosa e del tropo, costituisce la fioritura del gregoriano dopo Gregorio Magno. L‘innovazione piacque e Notker la sfruttò con attività prodigiosa, creando sequenze sempre più libere e autonome dagli Alleluia originari, e presto componendo, probabilmente, anche le melodie. Celeberrime divennero le sequenze di Notker: Media vita in morte sumus, Cum rex gloriae Christus, Sancti Spiritus adsit nobis gratia.
Papa Adriano II (867-72) diede, compiaciuto, la propria approvazione. Sorsero seguaci: il monaco Tutilone, morto nel 915 a San Gallo, creò i tropi, i quali, invece di essere, come le sequenze, libere farciture dei vocalizzi alleluiatici, sono aggiunte, introduzioni o inserzioni — da cantarsi specialmente nei giorni festivi — ai canti liturgici. Ebbero quindi, in origine, l’obbligo d’una maggior coerenza col senso del testo, cui restavano uniti e lo deformavano, mentre la sequenza non tardò a staccarsi dal testo sacro. Sequenza e tropo, queste forme della seconda età del gregoriano, rispecchiano la stanchezza creativa sopravvenuta nel canto cristiano dopo la codificazione liturgica operata da Gregorio Magno, che aveva naturalmente scoraggiato e paralizzato l’invenzione, ormai superflua, di nuovi canti. Applicandosi a commentare canti già esistenti, e abbarbicandosi ad essi come piante parassite, sequenza e tropo si accostano alla natura giuridica, tipicamente medievale, della chiosa e della postilla. Si giunse a tanto eccesso che soltanto il Credo era ormai rimasto integro; onde la Chiesa dovette intervenire e bandire tutti i tropi e le prose – forme affini di melismi versificati – che divennero poi patrimonio profano. Di questo primo periodo della sequenza (secoli X e Xl), periodo che può dirsi tedesco-bizantino, furono teorici e illustratori Bernone di Reichenau e Ermanno il Contratto; Wipo o Vipone, vissuto alla corte di Corrado II e morto nel 1050, si rese celebre con la sequenza Victimae paschali laudes attollamus.
Ma nei secoli XII e XIII il focolare della sequenza si spostò dai centri monastici di cultura tedesca, come San Gallo e Reichenau, verso la Francia. Il canonico parigino Adamo di San Vittore, nato in Bretagna e mortovi, pare, nel 1192, è il fondatore del secondo periodo, latino, della sequenza: essa abbandonò le forme bizantine che le avevano dato i monaci tedeschi per accostarsi alla forma dell’innodia latina, liberata definitivamente dalla metrica classica ed espressa in forme poetiche popolari e soggettive.
L’agile sequenza latina ebbe anch’essa tanto numerosi seguaci, che ben presto fu difficile distinguere tra sequenze sacre e profane: ne nacque una grande confusione, finché il Concilio di Trento ne fece piazza pulita e Pio V ammise soltanto l’uso di cinque sequenze, tuttora cantate nelle chiese occidentali: il citato Victimae paschali laudes, di Vipone; il Veni Sancte Spiritus, attribuito ora all’inglese Stephen Langton, un tempo a papa Innocenze III, morto nel 1216 e grande ammiratore dell’opera di Notker balbulus; il Lauda Sion Salvatorem di Tommaso d’Aquino, morto nel 1274; lo Stabat mater dolorosa di Jacopone da Todi, morto nel 1306; e il Dies irae dies illa di Tommaso da Celano, morto verso il 1260.
MASSIMO MILA
In “Breve storia della musica” – Einaudi
Foto: RETE
NOTE
1 «Colui che giubila non dice parole, ma è una specie di suono di gioia senza parole… Godendo nella sua esultanza di certe parole che non si possono dire né intendere, l’uomo prorompe in una specie di voce d’esultanza senza parole; si ch’egli pare godere nella voce stessa, incapace, per troppo gaudio, di spiegare con parole ciò che gode».