OMERO e l’etica del successo

 

 

Era attraverso la poesia […] che i Greci venivano educati a quei valori che secondo Werner Jaeger si possono riassumere, essenzialmente, nel concetto di arete.

Era la poesia che insegnava e ribadiva incessantemente quali erano le qualità che facevano di un uomo un agathos, un uomo forte e nobile, e insegnava a disprezzare chi non aveva queste qualità. Era la poesia che incitava ad “essere tra gli altri il migliore e il più bravo”, secondo l’insegnamento dato da Peleo al figlio Achille, prima della partenza per Troia (Il., 11, 784) e dal re dei Lici Ippoloco al figlio Glauco (Il., 11, 628).

Ma cosa voleva dire, esattamente, essere “il migliore e più bravo”? In quale orizzonte culturale si iscrivevano queste virtù? In quale contesto sociale?

Ovviamente, il mondo omerico era profondamente diverso da quello odierno. Era un mondo in cui valori come collaborazione, pietà e giustizia non avevano ancora fatto la loro comparsa. Le virtù necessarie per godere della considerazione sociale erano virtù per vincere, virtù per sopraffare. Non vi è personaggio che non si vanti, in primo luogo, di essere fisicamente forte. Agamennone in primo luogo, che gloriandosi della sua forza rispecchia il modello del re degli dèi. È sul piano della forza, infatti, che Zeus, quando sospetta che la sua posizione venga messa in discussione, sfida gli altri dèi a contrastarlo:

Ma su, provate, o numi, e così tutti vedrete:

una catena d’oro facendo pendere giù dal cielo,

attaccatevi tutti, o dèi, e voi, o dee, tutte:

non potrete tirare dal cielo sulla terra

Zeus signore supremo, neppure molto sudando;

[…]

tanto al disopra dei numi, al disopra degli uomini io sono.

(Il., 8, 18-27)24

La forza fisica (bie), insomma, era la prima virtù dell’agathos: era alla forza che questi doveva, in definitiva, il suo onore (time),  e di conseguenza il suo status sociale. Ma la forza non bastava: accanto a questa egli doveva possedere il coraggio, e non temere la morte. La sola cosa di cui doveva avere paura era la morte senza onore, lontano dal campo di battaglia: e l’epos ripete all’infinito questo insegnamento, non solo a chi in guerra deve cadere, ma anche alle donne, che dovranno piangere solo i caduti senza gloria.

Penelope – assurta a imperituro e angosciante modello di virtù femminile – quando si tormenta pensando che il figlio Telemaco potrebbe essere ucciso dagli spietati pretendenti alla sua mano, non si rammarica, come farebbe una madre moderna, di perderlo per sempre, di vederne stroncata la giovane vita. Quel che Penelope teme è che Telemaco muoia “senza fama” prima di compiere gesta per cui i posteri possano ricordarlo come un eroe (Od., 4, 728).

Forza fisica e coraggio, dunque. Ma non solo, L’agathos non doveva affermarsi solo in guerra, ma anche nella vita civica: egli doveva saper convincere i concittadini, far accettare le sue proposte, imporre le sue opinioni. Di conseguenza, doveva possedere un’ulteriore virtù: la parola. Doveva essere “buon parlatore“.

A Ulisse, che non a caso è il migliore fra tutti i mortali “per consiglio e parola” (Od., 13, 297-298), Eurialo ricorda, nella terra dei Feaci, che quando un dio “incorona di bellezza” le parole

di un uomo

… tutti lo guardano

affascinati: egli parla sicuro,

con garbo soave; brilla nelle adunanze,

e quando gira per la città, come un dio lo contemplano.

(Od., 8, 170-173)26

E per finire, chi è agathos è inevitabilmente bello. Secondo un modello che resterà nel mondo greco, la bellezza era legata al valore, nel binomio inscindibile del kalos kagathos (bello e valoroso). E come l’eroe era bello, così il vile era brutto, disgustoso a vedersi, anche fìsicamente ridicolo. Come Tersite, che era

… l’uomo più brutto che venne sotto Ilio.

Era camuso e zoppo d’un piede, le spalle

eran torte, curve e rientranti nel petto; il cranio

aguzzo in cima, e rado il pelo fioriva.

Era odiosissimo …

(Il, 2, 216-220)27

Ma attenzione, forza e bellezza non dovevano separarsi: la bellezza doveva essere il volto del valore. Donde l’inutilità della bellezza di Paride: gli Achei, dice Ettore parlando del fratello, bello ma imbelle, “credevan che fosse gagliardo il capo, perché bellezza è nell’aspetto, ma forza in cuore non c’è, non valore” (Il., 3, 44-45).

Non accompagnata dal valore, la bellezza di Paride diventa un demerito. Egli non è altro che un “bellimbusto, donnaiuolo, seduttore”. Così, più volte, lo apostrofa Ettore (Il, 3, 39): tanto più spregevole, quanto più, essendo bello, induce in errore, facendo credere di essere un eroe. È la sua bellezza ingannevole che ha sedotto Elena, che l’ha indotta a lasciare patria e famiglia per seguirlo a Troia.

Queste, dunque, le qualità culturalmente valutate e socialmente premiate nel mondo omerico: la capacità di imporsi con la forza fisica, con il coraggio, con la parola. Capacità che consentivano, a chi le possedeva, di comportarsi secondo i canoni eroici. E i canoni eroici imponevano, in primo luogo, di non tollerare le offese.

 

EVA CANTARELLA

In “ITACA” – Feltrinelli

Foto: RETE

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