È nota la ritrosia degli Italiani per lo studio e la pratica delle lingue straniere incoraggiata dalla gracile attenzione che la scuola riserva al loro insegnamento. Se così non fosse, leggeremmo direttamente in tedesco la massima di Goethe: «Chi non sa le lingue straniere non sa niente della propria». L’attuale parlata italiana corriva conferma sconsolatamente. I maltrattamenti della sintassi e quelli non infrequenti della grammatica, confusi con la rustica semplificazione del lessico, fanno risuonare, nella bella terra dove il «si» suonava, una parlata ormai gergale, inespressiva e priva di bellezza. Non basta l’alibi degli anglicismi ingiustificati che lardellano la lingua nostra senza utilità alcuna, solo per pretesto e per esibire una modernità accattona a camuffare la sostanziale ignoranza che la fa ambire. Non vuol dire studiare l’Inglese.
L’aneddoto: arrivando tardi ad un convegno per una mia relazione, un’addetta all’ospitalità mi ha avvertito che non ero stato ancora «brifato». Sbalordito, sul momento, non ho capito e ho pensato ad una sorta di vaccinazione. Poi, scavando nel mio poverissimo, ma sincero Inglese ho compreso che non avevo ancora ricevuto istruzioni (il verbo è to brief, informare). Siate «brifati»: era un convegno sulla scuola!
Ed è proprio dal mondo della scuola italiana che viene la più desolante notizia sul deperimento della nostra lingua e sul suo rinsecchirsi per l’aridità dell’insegnamento rassegnato all’inutilità e per il suo inquinamento costante con l’invadenza di neologismi inutili e ancora più inutili anglicismi, peraltro, spesso, scorretti. L’Accademia della Crusca criticò, anni fa, con onesta durezza il Ministero dell’Istruzione per la disattenta condotta di salvaguardia della lingua italiana nelle scuole e nelle Università.
La critica fu motivata da un «Sillabo» (ministeriale) destinato a promuovere l’educazione all’imprenditorialità nelle scuole statali secondarie di secondo grado incoraggiante una inutile sovrabbondanza di termini inglesi. Aveva ragione la «Crusca»: «Più che un’educazione all’imprenditorialità, questo documento sembra promuovere l’abbandono sistematico della lingua italiana». Il «Sillabo» approvava e, anzi, incoraggiava l’uso inutile degli anglicismi.
Un esempio: «Bisogna conoscere le leggi del team building!» Se conosci quelle di lavorare in gruppo non funzionerebbe l’apprendimento dei futuri imprenditori? Così come si deve conoscere e praticare il design thinking e non serve il progettare se si persegue il successo dell’iniziativa aziendale. Foolishness. Stupidaggini, come si vede.
Per sciatteria rassegnata e sbadigliante, nell’informazione e nella gergalità giornalistica nazionali, non si è neanche tentato di tradurre in buona lingua italiana il lessico tecnologico, specie nella parte inerente alla scienza informatica e all’uso dei nuovi media. A proposito, dicono «midia», con spocchia, tanti operatori della comunicazione forse perché aggiungendo il new si sentono più cosmopoliti, pur essendo solo ignoranti della circostanza che la definizione di McLuhan che conosceva il Latino, dal Latino è prelevata, e dire «Nuovi Media», non solo è più corretto, è anche più giusto.
Solo degli imbambolati burocrati, se sono in buona fede, possono pensare di paragonare l’ingente e fiorita generazione delle lingue neolatine a questa pigra e tetra omologazione in un unico idioma dell’ingente e affascinante varietà delle lingue umane. Mi aspetto che lo scrivano in quell’inglese arruffato e sciatto che usano ormai tutti e dovunque. Poi, magari, se aprissero un libro con le opere di Shakespeare, non riuscirebbero a comprendere e condividere quella poesia. Invocare la contaminazione naturale e inevitabile delle lingue nelle reciprocità dei prestiti, nella vivacità dei confronti e della beneamate contaminazioni, è operazione furba, ma non bastevole a farci rassegnare alla sudditanza del grande capitalismo planetario che vede nell’omologazione di costumi culturali, nell’impoverimento basico di lingue e linguaggi, nella parificazione dei comportamenti, la base per la creazione dell’immane mercato unico governato dai sempre più ricchi e sempre meno numerosi e la moltitudine dei più poveri avidi delle stesse merci.
La specificità non è campanilismo o localismo difesi dalla particolarità, la specificità identitaria è ricchezza, è varietà e pluralità di percezioni ed espressioni del mondo. Nelle scritture ancora scricchiola il rudere della Torre di Babele e la connessa mancanza della diversità delle lingue che persuase Dio a chiudere il cantiere per vanificare la presunzione di una umanità che balbettava lo stesso idioma. «Ecco, essi sono un solo popolo e hanno tutti una lingua sola; questo è l’inizio della loro opera superba e presuntuosa, ma sarà loro impossibile quanto vorranno fare.
Confondiamo la loro lingua, perché non comprendano più l’uno le lingue degli altri». E le imparino. Il Signore così li disperse su tutta la terra abbandonando l’asfissiante falansterio. E vide che la varietà delle lingue era cosa buona per popolare tutto il creato e anche per vanificare la presunzione assolutistica di una umanità robotica e presuntuosa asservita al padrone dei cantieri e delle torri.
And God blessed the wise polyglots. E Dio benedisse i poliglotti sapienti.
MICHELE MIRABELLA
Foto: RETE