L’abete, da albero cosmico a simbolo di Cristo

 

Nelle feste natalizie, come in altre del calendario cristiano, confluiscono simboli e tradizioni precedenti che, in un processo di assimilazione dell’eredità religiosa precristiana, venivano, per così dire, «redente», pur fra la preoccupazione di alcuni pastori che avrebbero preferito una fede meno impastata di elementi delle religioni cosmiche.

D’altronde persine gli Ebrei, fin dalla conquista di Canaan, avevano assunto molti elementi simbolici e rituali dalle religioni cosmiche orientali; e altri ne avrebbero recepiti in epoca greco-romana, trasmettendoli al cristianesimo. «L’immaginazione mitologica cristiana» osserva Eliade «acquisisce e sviluppa motivi e scenari specifici della religiosità cosmica, ma che hanno già subito una reinterpretazione nel contesto biblico […] Il fenomeno è importante perché caratterizza la creatività religiosa di tipo folkloristico – su cui non si è soffermata molto l’attenzione degli storici delle religioni – che è una creatività parallela a quella dei teologi, mistici e artisti. Si può parlare di cristianesimo cosmico poiché, da un lato, il mistero cristiano viene proiettato sulla Natura intera e, dall’altro, vengono trascurati gli elementi storici del cristianesimo, insistendo invece sulla dimensione liturgica dell’esistenza del mondo.»

Ne sono un esempio i canti natalizi rumeni detti colinde, da Kalendae lanuarii. La sera del 24 dicembre i colindàtori visitano tutte le abitazioni del villaggio schiamazzando per le vie e suonando tamburi affinché il gran baccano allontani gli spiriti maligni. La prima colinda è cantata sotto la finestra; poi i giovani entrano nella casa, dove recitano le benedizioni tradizionali, cantano e ballano con le ragazze. I colindàtori augurano salute e bellezza, simboleggiate da un verde arboscello di abete deposto in un vaso ricolmo di mele e noci.

La presenza nella festa di un ramoscello di abete non è casuale. Infatti, fin dall’antico Egitto l’abete fu considerato un albero della Natività, non meno antico della palma, perché era la pianta sotto la quale era nato il dio di Biblos, il prototipo dell’Osiride predinastico egizio.

In Grecia l’abete bianco o elàte era sacro alla dea Artemide, cioè alla Luna, protettrice delle nascite, in onore della quale, nelle feste dionisiache, se ne sventolava un ramo con una pigna sulla punta, intrecciato con un tralcio di edera. Portava lo stesso nome dell’abete bianco Elàte, la dea delle luna nuova, detta anche Kaineìdes, da kainìzo, rinnovare, recare cose nuove. Un giorno, narra un mito, la ninfa Kaineìdes, figlia di Elato il Magnesio, o secondo altri mitografi di Corono il Lapita, fu posseduta da Poseidone che, soddisfatto, le chiese che cosa desiderasse come dono d’amore. «Trasformami in un guerriero invincibile. Sono stanca di essere donna.» Kaineìdes divenne così il guerriero Kaineùs, che condusse più volte alla vittoria i Lapiti fino a essere acclamato loro re. Inorgoglito dal suo potere, Kaineùs piantò una lancia di abete nel mezzo della piazza del mercato costringendo tutti a offrirle sacrifici, quasi si fosse trattato di una divinità.

Zeus, sdegnato dalla sua presunzione, indusse i Centauri a ucciderlo. Durante le nozze di Piritoo essi assalirono il guerriero, che ne uccise facilmente cinque o sei senza riportare nemmeno un graffio perché le armi degli assalitori scivolavano sulla sua invulnerabile pelle. I Centauri superstiti cambiarono allora tattica e percossero Kaineùs sul capo con tronchi di abete fino a stenderlo a terra; poi lo ricoprirono con una catasta di altri tronchi soffocandolo. A quel punto un uccello grigio volò via dalla catasta.

L’indovino Mopso, che aveva assistito alla scena, disse di avere riconosciuto in quell’uccello l’anima di Kaineùs. Al termine delle esequie si scoprì che il corpo del guerriero aveva riacquistato forme femminili. Il mito adombra probabilmente un rito primaverile in onore della Grande Madre, che doveva consistere nell’innalzamento di un abete nella piazza del mercato e in una cerimonia rituale in cui uomini nudi, armati di magli, percuotevano sul capo un’effigie della Madre Terra per liberare lo spirito dell’anno nuovo.

L’abete, insieme con la betulla, viene considerato fra le popolazioni dell’Asia settentrionale un albero cosmico che si erge al centro dell’universo. Secondo gli Altaici, sull’ombelico della terra spunta l’albero più alto, un gigantesco abete i cui rami s’innalzano fino alla dimora di Bai-Ulgàn, la divinità protettrice, collegando le tre zone del cosmo: cielo, terra e inferi. Secondo gli Ostìachi-Vasjugan la sua cima penetra nel cielo mentre le radici affondano negli inferi. I Tatari siberiani sostengono che una copia dell’Albero celeste si trova nell’inferno: un abete con nove radici si erge davanti al palazzo di Irle Khan, il re dei morti. Fra gli sciamani yakuti si favoleggia che nel Nord cresce un abete gigantesco che porta sui rami dei nidi, dove si trovano gli sciamani, i grandi sui rami più alti, i medi su quelli di mezzo e i minori sui rami più bassi. L’Uccello-Madre-da-Preda, che ha testa d’aquila e piume di ferro, si posa sull’Albero, dove depone le uova per poi covarle: lo schiudersi di quelle che contengono i grandi sciamani richiede tre anni d’incubazione, due quello dei medi e uno quello dei minori.

Nel calendario celtico l’abete era consacrato al giorno della nascita del Fanciullo divino: giorno supplementare che seguiva il solstizio d’inverno. Il legame fra l’albero e il solstizio è documentato anche nei paesi scandinavi e germanici, nei quali, nel Medioevo, poco prima delle feste solstiziali ci si recava nel bosco a tagliare un abete che, portato a casa, si decorava con ghirlande, uova dipinte e dolciumi. Intorno all’albero si trascorreva la notte allegramente: un’usanza radicata se, nel XV secolo, Geiler von Kayserberg, un predicatore della cattedrale di Strasburgo, condannava gli eccessi orgiastici di quella notte trascorsa intorno all’abete.

Nei paesi latini l’abete natalizio, forse presente in epoca barbarica nei territori invasi dalle popolazioni germaniche e poi scomparso dopo la loro evangelizzazione, non penetrò se non molto tardi. Solo nel 1840 la principessa Elena di Mecklenburg, che aveva sposato il duca di Orléans, figlio di Luigi Filippo, introdusse l’albero di Natale alle Tuileries, suscitando la sorpresa generale della corte.

Fu così che l’uso di decorare per Natale l’abete bianco o quello rosso si diffuse a poco a poco anche nei paesi latini a simboleggiare la nascita del Cristo, anzi a trasformarsi in un simbolo del Cristo come Albero della vita, con una curiosa analogia con le tradizioni siberiane. D’altronde fin dal primo Medioevo molti commentatori cristiani identificavano l’abete con il Cristo. Il Venerabile Beda scriveva: «Figura anche di un mistero spirituale, cioè del nostro Dio e Signore Gesù Cristo. Di lui è detto, nella lode della Sapienza: “È l’albero della vita per coloro che l’afferrano” [Proverbi 3,18]». E Ruperto: «II paradiso terrestre fu fatto a immagine del paradiso celeste, dove le potenze angeliche sono come alberi bellissimi, e “albero della vita” è Dio stesso, della cui visione beata gli angeli sempre vivono felici […] E a immagine e somiglianza della Chiesa degli eletti dove […] “albero della vita” è il Cristo». […]

L’albero di Natale è dunque il Cristo – Albero della vita analogo al Cristo-Sole. Ad Assisi, nella cappella del monastero di Santa Croce, dove vivono le suore cappuccine tedesche, nella notte di Natale un abete campeggia sotto il crocifisso dell’altare maggiore, mentre altri alberi decorati con striscioline di carta e candeline sono sistemati lungo la navata.

Anche gli addobbi dell’albero sono stati interpretati cristianamente: i lumini simboleggiano la luce che il Cristo dispensa all’umanità, i frutti dorati insieme con i regalini e i dolciumi appesi ai suoi rami o raccolti ai suoi piedi sono rispettivamente il simbolo della vita spirituale e dell’amore che Egli ci offre. Radunarsi intorno all’albero la notte di Natale significa dunque essere illuminati dalla sua luce, godere della sua linfa, essere pervasi dal suo amore.

 

ALFREDO CATTABIAMI

Im “CALENDARIO” – Mondadori

Foto: RETE

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