Madonna del Pollino, tra sacro e profano.


Cinque!», «sei!», «quattro!». Vincenzo, Antonio, Franco e Saverio giocano alla morra nel piazzale antistante la chiesa. Sono le due di notte e nella cappella si intonano preghiere e canti. Senza sosta, sino all’alba. A San Severino Lucano (Pz) la fede si chiama Madonna del Pollino. Una fede infarcita di tradizione che unisce due terre tra loro molto simili: Basilicata e Calabria.

In questo fazzoletto di montagna, nel cuore del Parco nazionale del Pollino, in una terra di briganti e di pastori dove il turismo prova a fare capolino quasi senza voler troppo disturbare, si respira una devozione verso la Vergine Maria che racchiude tutta l’umiltà, la passione e i valori di un popolo. Il primo venerdì e sabato di luglio, migliaia di fedeli si danno appuntamento al santuario.

Santuario-della-Madonna-del-Pollino

Arrivano dai paesi limitrofi: Terranova di Pollino, Francavilla sul Sinni, Senise, Rotonda, Viggianello. E dal vicino versante jonico calabrese: Amendolara, Trebisacce, Albidona, Alessandria del Carretto, Castrovillari, Cassano Jonio. «Il tempio solitario sta appollaiato come un nido d’aquila sull’orlo di una rupe a piombo sul fiume Frido. Tutto il resto è foresta, interrotto qua e là dalla roccia.Ma vicino, ai piedi di un precipizio, si apre un verde prato che ora è coperto di tende e baracche pronte per la festa, il cui frastuono è già in pieno sviluppo». Così descriveva il luogo, in Old Calabria, lo scrittore Norman Douglas durante il suo viaggio nel Mezzogiorno agli inizi del ‘900.

Quel frastuono di tradizione, di pagano, simile quasi a un sacrilegio per i più sprovveduti, crea un’atmosfera che conduce oltre una comune festa di paese. La sera del venerdì, lassù, all’interno della chiesa edificata attorno al 1700 nel luogo in cui la Madonna – si racconta – apparve a un pastore, inizia la veglia che condurrà i devoti sino alle prime luci del mattino. Ed è in queste ore, nella notte della foresta, circondati dalla catena montuosa del Parco nazionale più grande d’Italia, che l’omaggio alla Vergine si sprigiona in tutte le sue forme.

All’interno del rifugio, ifratelli, gruppo storico che organizza i festeggiamenti, riconoscibili da un gilet di velluto amaranto, offrono ristoro ai pellegrini, allietandoli con vino, crispelle, salame e formaggi. Mentre all’esterno, da zampogne e organetti, risuona la pastorale.Nella chiesa le donne pregano e liberano canti, trasmessi oralmente da generazione in generazione, nella terra calabra come in quella lucana. Ed è così che lo stesso inno può presentarsi in maniera diversa se a intonarlo sono i lucani di San Severino o i calabresi di Cassano.

Questo vociare disorganizzato ai piedi della statua viene sopraffatto dalle zampogne e dagli organetti che, non di rado, si spingono sin dentro la chiesa per portare la «serenata» alla mamma celeste. Accompagnati da cesti dicannaricoli e fiaschi di vino da offrire ai presenti.

Il visitatore saltuario resta affascinato da questo connubio di sacro e profano. Qui, sul Pollino, la tradizione avvolge la fede come per proteggerla dalle degenerazioni contemporanee. Questo rincorrersi di antichi rituali suscita dibattiti tra gli stessi sacerdoti che gravitano attorno al santuario. Qualcuno, tra loro, ha provato a seguire l’esempio di Gesù che ripuliva il tempio dal mercato, ma con scarsi risultati.

Il sabato, ancor prima del sole, giungono al santuario altri visitatori. Ormai il rumore delle auto ha spodestato il ragliare degli asini e i cori popolari che annunciavano l’arrivo dei pellegrini: «Siamo venuti da tanto lontano per venire a vedere Maria».

In passato si affrontavano ore di cammino dai centri vicini e giorni di viaggio dai paesi della Calabria pur di non mancare ad un appuntamento onorato da sempre.

Al mattino il santuario si risveglia, tra chi ha dormito in tenda, chi in macchina e chi in chiesa. Questi ultimi richiamano, pur senza volerlo, l’antico rito romano dell’incubatio. Che consisteva nell’addormentarsi nei santuari in posizione supina per ricevere in sogno la terapia da seguire per guarire da un male.

La prima tappa per i nuovi arrivati è la visita alla grotta della Madonna, non prima di aver compiuto tre giri attorno alla chiesa. La grotta è incavata in una roccia, buia e poco accessibile. La leggenda racconta di due donne che vedendo sgorgare acqua da una grossa pietra si avvicinarono e vi trovarono una statua della Madonna avvolta in un panno. A giorno inoltrato, quando ormai tutti i pellegrini hanno raggiunto il santuario, il rito più atteso può iniziare. La statua della Vergine viene simbolicamente messa all’asta. All’incanto partecipano tutte le delegazioni dei paesi presenti. Dopo un combattuto gioco al rialzo, il comune vincitore avrà diritto ad ospitare, per un periodo dell’anno, la statua. E durante la processione, che di li a poco si snoderà attorno alla chiesa, la Vergine sarà portata in spalla dagli stessi pellegrini vincitori dell’incanto, preceduti dalle donne con i cintisul capo.

Il cinto, simbolo di ringraziamento per una preghiera esaudita, è una struttura di legno, vuota all’interno e a forma di cubo con dei buchi laterali nei quali vengono infilate delle lunghe candele circondate da nastri e fiori. Intanto, vino e taralli accompagnano la marcia dando vita ad una sana allegria che sfocia in tarantelle. Incitate con un suono particolare prodotto da una chiave di catuoio (antico magazzino per conservare vino, salami e formaggi) che sfiora con ritmo una bottiglia di vetro.

Riaccompagnata la statua in chiesa, la festa continua. «Si accendono i fuochi e si divora una pazzesca quantità di cibo. Secondo l’uso si mangia per devozione», racconta Douglas. La vivanda più consumata è la carne di capra arrostita, per rafforzare il legame simbolico con l’economia pastorale del luogo. Nella fede di lassù il fumo dell’arrosto è incenso per la Madonna.

Poi, al calar del sole, i pellegrini abbandonano la montagna che può ritornare così al suo antico silenzio.

Vincenzo La Camera

Da amendolaralive.it

Foto: RETE

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