“Zero Dark Thirty” di Kathryn Bigelow

Per avere un’idea di cosa abbia significato l’Afghanistan nell’immaginario statunitense, bisogna aver visto Rambo III e ricordarselo bene.

Osama Bin Laden è esistito. Che probabilmente sia stato anche o in parte una creazione degli USA oggi è pacifico. Anche se solo qualche anno fa si correva il rischio d’essere tacciati di paranoia cospirazionista se s’insinuava il dubbio che Osama fosse stato foraggiato con i dollari della Cia (o addirittura accusati di essere filoterroristi). Insomma: Osama è la parabola di come un “amico” scompaia letteralmente dall’orizzonte politico per poi riapparire come “fantasma”. E male assoluto.

Rambo III, in questo senso, è utile per comprendere come attraverso la lumpen-poetica stalloniana, che celebra il riscatto del sottoproletario di ogni latitudine, si porta a conoscenza il pubblico americano che in Afghanistan a combattere contro ciò che resta del macilento orco sovietico, c’è un nuovo… amico.

Un amico, basta andare a rivedere il film, che assomiglia ai pellerossa d’America (d’altronde lo stesso Rambo è armato con un arco i cui gadget potrebbero fare invidia a Occhio di falco, ma l’arco in ogni caso è un segno importante… si raccoglie un’eredità guerrigliera… è anche questo è un modo per fare i conti con un senso di colpa che non sarà mai placato…).

Dalle nostre parti, criticamente e non, a Stallone si dava tranquillamente del reazionario perché era… antisovietico. E semmai ci fosse stato un appunto da muovere a Rambo è che antisovietico lo era troppo poco (Rocky IV, in questo senso è un film che deve tutto a Frank Capra, altro che McCarthy!).

Quasi subito in Rambo III si dichiara, citando un proverbio presunto afghano che non si sa quanto sia afghano e quanto un’efficace invenzione di sceneggiatura: “Che Dio mi guardi dalla zanna della tigre, dal veleno del cobra e dalla vendetta di un afghano”.
Alla luce dell’undici settembre, inside job o meno, passano i brividi sulla schiena: la storia dell’amicizia tra Osama e gli Usa sta tutta in quella battuta. Ad averla saputa leggere all’epoca…

Ma non basta. Quando Stallone/Rambo conosce i guerriglieri di Masoud (interpretato da Spiros Focas), che ovviamente sta per Osama, questi gli fa capire chiaramente che quella non è la sua guerra (ma i russi hanno rapito il mentore rambiano Trautman e quindi tutto si semplifica o complica a seconda del punto di vista…).
Rambo partecipa poi al buzkhashi, cruento sport ippico, oggetto privilegiato di qualsiasi documentario sull’Afghanistan. E non sfigura.
Insomma: l’Afghanistan è esistito. Osama pure. La dedica finale di Rambo III è indirizzata al “valoroso popolo afghano”.

Se ci siamo dilungati è per evidenziare che a volte bisogna puntare il dito con forza in una direzione per far capire che non siamo soli. Il problema sorge quando si scopre o si deve far credere che invece siamo soli.
Se Osama è stato anche una creazione dell’immaginario cancellata altrettanto rapidamente, tanto è vero che appare fugacemente in una foto segnaletica inHannibal insieme al Dr. Lecter (!), in Zero Dark Thirty Kathryn Bigelow mette in scena, con straordinaria precisione chirurgica, la fatica per riportare alla luce un fantasma creato e poi rimosso.

Ovviamente c’è una lettura primaria del film bigelowiano che non prenderemo nemmeno in considerazione, tanto è banale: ossia la presunta apologia dell’operato della CIA e relativa esaltazione della macchina bellica USA. Una lettura simile non potrebbe essere più distante dal cinema bigelowiano che è invece concentrato sempre sul lavoro, la sua esecuzione e le sue dinamiche. Lavoro inteso come performance (Point Break), come rituale (Blue Steel), ossessione (Strange Days), luogo comunitario (K-19), tossicodipendenza (Hurt Locker) nel quale Il buio si avvicina e Il mistero dell’acqua rappresentano i due punti di fuga: la luce e sua relativa mancanza e l’immaterialità.

Se, come tentavamo di argomentare Rambo III rappresenta, racconta, la creazione di Osama e la sua prima manifestazione spettacolare compiuta nell’arena dell’immaginario collettivo, Zero Dark Thirty, invece, rappresenta, se si vuole, una seduta spiritica, ossia il lavoro necessario, per restituire un’immagine a qualcuno che non ne ha più.

Perché se è vero che essere cancellati dall’elenco degli amici della Cia provoca la perdita della propria immagine, dall’altra è vero anche che non è facile combattere un nemico che non esiste e che pertanto è ovunque. In questo senso Osama, pur provenendo da una cultura che per motivi religiosi possiede un rapporto con le immagini molto più complesso, si è rivelato un manipolatore di immaginario infinitamente più scaltro degli esperti di “comunicazione” della Cia.

Osama, l’uomo senza immagine, è l’uomo con tutte le immagini possibili: il film si apre, infatti, su un luogo di detenzione dove si tenta di risalire a lui attraverso una teoria di approssimazioni di uomo in uomo, d’intermediario in messaggero. Invano.

Non a caso Zero Dark Thirty riprende il versante medioevale del sottostimato serial 24, la tortura, cosa che indica che nell’era dell’immateriale il corpo torna inevitabilmente a essere il campo di battaglia primario (idea che invece la presidenza Obama rifiuterà, anche questa cosa documentata con grande precisione dal film).

Insomma, Zero Dark Thirty racconta il processo attraverso il quale Osama torna ad avere un’immagine, o meglio: come si possa creare una non-immagine alternativa di un’assenza che, inevitabilmente, determina anche l’avversario.

Ossia: se il mio nemico non ha un’immagine, se non riesco a vederlo, nemmeno quando lo torturo a morte, io chi sono? E infatti Jason Clarke, Dan, l’agente della Cia che ha toccato troppi corpi (leggi torturato), deve cambiare aria: deve trovare “se stesso” (leggi toccare se stesso…).
Maya (nome sintomatico, che rimanda al velo, dietro al quale tocca sempre guardare) scopre che la non-immagine è un segno, o meglio l’immagine, di un corpo rizomatico: di un corpo sociale che funziona come una rete (e anche in questo caso Osama ci batte ai punti… quanto ci manca McLuhan…).

Il potere del nemico, quindi, non esiste in un solo luogo o corpo, esiste piuttosto come idea, ed è in quanto pratica, ossia processo condiviso, che ritorna infine ad appartenere anche a un luogo.
Insomma: Zero Dark Thirty è un film sulla comunicazione. Su come non funziona e sui suoi buchi.

La Cia come appare nel film della Bigelow è ancora più “sovietica”, burocratica che in Green Zone: funzionari ministeriali che spendono i soldi dei contribuenti perché se da un lato bisogna dare qualcosa al pubblico in cambio dei soldi delle tasse (la caccia a Osama) dall’altro bisogna conferire visibilità al proprio lavoro. Ma come fare se non ci sono immagini a disposizione?

In questo senso Zero Dark Thirty è come una variazione sul tema de Il mago di Oz: Dorothy/Maya riesce a strappare il velo dietro il quale si nasconde il mago ma, nel farlo, non rivela tanto il mago, quanto la propria strategia di disvelamento.

Ed è questo il valore politico indiscutibile dello straordinario film di Kathryn Bigelow. Il feticcio della segretezza, elemento integrante e irrinunciabile nella presunta guerra al terrore, nel nome della quale si potevano (possono) commettere gli abusi più inconcepibili, è rivelato per quello che è: un processo lavorativo profondamente disfunzionale. E attenzione a com’è eseguito il raid sul covo di Osama. Bisogna prestare attenzione ai cosiddetti collateral damage per capire sino in fondo.
Una tale lucidità politica in passato è stata caratteristica del solo Robert Aldrich.

La Bigelow – come solo il cinema politico americano sa e osa fare – restituisce al dibattito pubblico ciò che altrimenti resterebbe segreto o oggetto di propaganda militare. Zero Dark Thirty, sprofondando nei recessi più oscuri della macchina della comunicazione del potere, lì dove risiede il suo “ghost in the machine” (o “in the shell”), porta alla luce il lavoro necessario per vedere: ossia restituisce a noi come possibilità di dialogo ciò che ci era stato sottratto in nome di un ideale di libertà e di protezione astratto.

Zero Dark Thirty, ricostruendo la cattura e l’uccisione di Osama Bin Laden, riporta nell’arena del discorso pubblico, ciò che era stato sequestrato dalla ragione militare.

Paradossalmente la precisione, o la determinazione dell’esecuzione del raid, diventa l’immagine più attendibile della determinazione e della necessità di desegretare ciò che è compiuto in nome nostro e per la nostra protezione.

Politico come 24 e HomelandZero Dark Thirty è il cinema politico che ostinatamente, scientificamente, discute al presente ciò che sono diventati gli Stati Uniti nel corso della guerra al terrore.

Esempio di controstoria in presa diretta, Zero Dark Thirty, proprio come Rambo III ieri, sarà il film che domani ci spiegherà cosa ha significato Osama Bin Laden per gli Stati Uniti.

Di Giona A. Nazzaro

Da  http://temi.repubblica.it/micromega-online/il-film-della-settimana-zero-dark-thirty-di-kathryn-bigelow/

Foto: web

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