“Su Re” di Giovanni Columbu – Un film che arriva da una parte dimenticata del paese.

 

Fotogramma di “Su re”

E poi arriva come dal nulla un film italiano che dimostra che un altro cinema è possibile.
Un film che arriva da una parte dimenticata del paese. Dove non ci sono angosce sentimentali da liceali. Né famigliole alto-borghesi radical-chic alle prese con le crisi dei primi 40 anni. Dove non si parla il solito italiano omogeneizzato da trent’anni di pessima televisione. Un film che ignora olimpicamente tutte – TUTTE – le convenzioni del cosiddetto cinema “ben fatto” da regime duopolio-generalista che ha devastato immaginario e linguaggio. Un film che opera un violentissimo scavalcamento di campo come non se ne vedeva dai tempi di Ciprì & Maresco.

Su Re di Giovanni Columbu squarcia la banalità del cinema italiano, quello che si vede nelle sale e non solo e che si continua a fare come in un fermo immagine fuori dalla storia.
Una dichiarazione di discontinuità impressionante. Una sorta di supremo urlo primordiale che ci riconcilia violentemente (ossimoro voluto) con le ragioni del fare cinema come strumento privilegiato per indagare le ragioni del nostro esserci.
Un “NO!” bello e necessario, insomma.

Su Re è un film strappato alle viscere di questo paese ambientato fra le pietre della Sardegna che risuona d’una lingua durissima e aspra.
Una contraddizione scioccante in un paese dimentico delle proprie lingue e felice della propria catastrofe borghese.

Senza contare che Giovanni Columbu, invece, osa iniziare Su Re con quella che a tutti gli effetti, stando alla grammatica maggioritaria, è un’inquadratura “sbagliata”.
Un’inquadratura che sembra fatta da un operatore mentre stava per rovinare fra le rocce. Una scelta di campo che, a nostro avviso, avvicina il film di Columbu allo straordinario Leviathan della coppia Lucien Castaing-Taylor e Verena Paravel, uno dei film che insieme a Twixt di Francis Ford Coppola, Tabù di Miguel Gomes eHoly Motors di Leos Carax ha riposizionato la barra del cinema contemporaneo verso una modalità di pensiero complessa e aperta.

Nonostante il cinema italiano vanti opere importanti che hanno portato sullo schermo la vita e la passione di Cristo – da Christus di Giulio Antamoro (1916) a Il vangelo Secondo Matteo di Pier Paolo Pasolini – Su Re si segnala come un lavoro di rara audacia formale attraversato da una commozione vera e altissima.

Columbu decostruisce la linearità narrativa della vicenda cristica. Come un incubo che s’avvolge su stesso, il regista pone al centro del suo film il mistero della crocifissione. Intorno a esso, come in un sogno continuamente interrotto che scorre su un nastro di Escher difettoso, brandelli della vita di Cristo sono posti costantemente in relazione con la morte sulla croce. La croce dunque come interrogativo ineludibile della vicenda terrena di Cristo.

Giovanni Columbu filma con una furia inebriata eppure controllata. La macchina a mano si muove come calata in un vortice di violenza impedendo allo spettatore di darsi qualsiasi punto di riferimento per orientarsi.

Le inquadrature di Su Re sembrano brandelli di spazio conquistati a fatica al resto del mondo e della vita. Come se il cinema non avesse (più) diritto di cittadinanza nel mondo e dovesse riconquistare il proprio posto strappandolo con le unghie.

Rispetto a Totò che visse due volte, opera dal nitore dreyeriano vicina al film di Columbu per la scelta del dialetto, degli interpreti non professionisti e degli ambienti naturali, Su Re spezza qualsiasi riconoscibilità cinefila. Anche i pur evidenti riferimenti pittorici sono come gettati nel mucchio senza alcuna preoccupazione che lo spettatore li possa riconoscere o meno. Anche se ovviamente Bosch e Brughel sono presenti nei lineamenti degli interpreti, nel paesaggio e nella composizione dei corpi in relazione alla profondità di campo.

Ciò che conta nel film di Columbu è il lavoro della macchina da presa, instancabile nella sua violenza dionisiaca, e il montaggio che interviene con ulteriore violenza sul girato già di suo vertiginoso.

Rispetto per esempio a un film importante come Il canto degli uccelli di Albert Serra, Columbu non cerca mai volutamente l’immagine lirica o evocativa. Tutte le inquadrature sono tagliate e montate in spregio a qualsiasi ottica di linearità. Nessun attacco è rispettato e la profondità di campo si gioca sempre contro il più bruciante dei primi piani o dettagli.

Come se il mistero di Cristo non potesse essere detto che da una voce o lingua che rinunci prima di tutto a essere lingua o voce per diventare altro da se e ritrovare così (forse) Cristo nell’esilio e nella distanza dal mondo. Diventare irriconoscibili e inconoscibili a se stessi e al mondo per andare incontro al mistero della Salvazione. Andargli incontro privi di tutto.

Che questo interrogativo sia formulato e detto da Columbu attraverso i soli mezzi del lavoro cinematografico è forse il merito maggiore del film che in questo si apre allo sguardo senza anteporre alla fruizione necessariamente le clausole del discorso confessionale.

Su Re dunque è un film importante e che resterà. L’opera di un regista forte e singolare che ci ricorda tutto ciò che il nostro cinema non è più.

di Giona A. Nazzaro

Da repubblica.it/micromega-online

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