Vita – morte – rinascita: miti e rituali nell’alternarsi delle stagioni

“Nascita di Venere” – Botticelli

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Secondo le teorie accreditate dal Ramo d’oro di James G. Frazer lo spettacolo dei grandi cambiamenti che annualmente si alternano nella natura ha sempre fortemente colpito la mente degli uomini, spingendoli a meditare sulle cause di trasformazioni così grandi e meravigliose e spiegando lo sviluppo e il deperimento della vegetazione, la nascita e la morte di tutto ciò che vive, come effetti della forza crescente e calante di esseri divini che nascevano, morivano e risorgevano.
Gli uomini hanno quindi immaginato di poter rinvigorire la divinità, principio della vita in lotta con l’opposto principio della morte, e di poterne favorire la resurrezione con celebrazioni e riti che, pur variando da luogo a luogo, erano tutti assai simili nella sostanza. Il mito è quindi prodotto dall’uomo come una spiegazione inadeguata della natura e il rituale segue il mito. Nell’antico Occidente mediterraneo le divinità più legate a tali fenomeni di alternanza naturale furono Afrodite e Demetra.

Venere-Afrodite, la più bella e sorridente fra le bellissime dee, primitiva personificazione della luce del giorno che sorge dal mare e della forza vitale che promana dalle acque, fu adorata in tutto il mondo greco-romano come dea dell’amore.
Su un cocchio trainato da cigni e colombe, incoronata di mirto e di rose, simbolo della primaverile fecondità della natura, percorreva lietamente le terre e i cieli seguita dal suo folto corteggio. Per sedurre, le bastava sciogliere il cinto d’oro che tratteneva la sua veste, perché dalla sua persona emanasse una soave fragranza d’ambrosia che ammaliava infallibilmente uomini e divinità.
Fra i suoi numerosi amanti il più adorato fu Adone, simbolo della gioventù e della bellezza maschile, ma anche della morte e del rinnovamento della natura nell’alternarsi delle stagioni.
Figlio di Cinira, re di Cipro, e di sua figlia Mirra, nacque dal corpo della madre trasformata in albero di mirra dopo l’incesto. Famoso per la grande bellezza, Adone fu amato da Venere ma durante una battuta di caccia venne ucciso da un cinghiale inviato dal geloso Apollo o da Marte, amante della dea. Dal sangue del giovane morente crebbero gli anemoni; il sangue della dea invece, ferita dai rovi nella corsa per soccorrerlo, macchiò le rose nate dalle gocce d’acqua scivolate a terra dalla sua pelle mentre usciva grondante dal mare di Citera. Da bianche divennero rosse, eterna testimonianza della passione amorosa.
Giove fu commosso dalla disperazione di Venere: Persefone, regina dell’Ade, non voleva restituire alla vita il giovane. Eletto ad arbitro fra le due innamorate, il padre degli dei stabilì che Adone vivesse quattro mesi nel regno degli Inferi, quattro sulla Terra e quattro in un luogo a sua scelta: Adone scelse la Terra, in compagnia della divina amante Venere.

Venere e Adone – 1541 Tiziano Vecellio (Pieve di Cadore ca. 1490 – Venezia 1576)

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E’ questo uno dei miti per eccellenza sull’alternarsi delle stagioni in cui ‘Adon’, il ‘Signore’ del mondo mediorientale (‘Adonî’, ‘mio Signore’, è l’epiteto – attributo usato come invocazione per l’antico dio sumero Tammuz) viene ucciso da una forza cupa, il setoloso cinghiale simbolo dell’inverno, il cui freddo soffio spegne la vita della natura che riprende vigore nel ritorno periodico della primavera, risvegliata da Afrodite, la forza vegetativa personificata.
Mito quindi arcaico, diffuso dall’Asia Occidentale a tutto il bacino del Mediterraneo, estremamente persistente nel tempo e addirittura parzialmente inglobato nei rituali cristiani. Infatti fra giugno e luglio in Grecia venivano celebrate le Adonie, feste non pubbliche e tutte femminili, festeggiate specialmente dalle cortigiane in conviti licenziosi nel privato delle abitazioni.
In realtà, più o meno discretamente, tutto il mondo femminile onorava il bellissimo ‘Signore’ con la coltivazione di graminacee che venivano messe a germogliare in vasi e ceste, i ‘Giardini di Adone’, posti sui terrazzi dove il calore del sole ne accelerava la germinazione, ma presto bruciava i teneri germogli.
I vasi, portati in processione insieme ad un sarcofago di pietra nel quale era sepolto un simulacro di Adone, venivano poi gettati in mare come tributo all’elemento fonte di energia da cui Afrodite era emersa alla vita.
In molte zone del Sud Italia nei riti della settimana di Pasqua è sopravvissuta la ritualità simbolica precristiana in cui il passaggio primavera / inverno si manifestava con la morte / rinascita della divinità. I ‘Giardini di Adone’ sono ancora esplicitamente presenti nei ‘Sepolcri’ di alcune zone della Sicilia, dove accanto ai trionfi di fiori, vengono esposte le esili e fragili piantine nate da semi di cereali lasciati germogliare al buio.  D’altra parte anche l’anemone, nato dal sangue sparso da Adone, sarà in epoca cristiana associato alle gocce di sangue del Cristo crocifisso.

In contrapposizione con le Adonie erano le Tesmoforie, le feste pubbliche in onore di Demetra, dedicate al mondo femminile istituzionalizzato nella famiglia.
Da Demetra, la terra genitrice, era nata Persefone – Kore, archetipo della ‘fanciulla’ dal ridente viso in fiore, che un giorno fu rapita da Ade, dio degli Inferi, per farne la sua sposa.

Persefone e Ade in trono, particolare di pinax locrese, V sec. a.C., Museo Archeologico Nazionale di Reggio Calabria

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La madre si strappò ornamenti e vesti variopinte per coprirsi di cupi veli che oscurarono il cielo e, afferrate le faci ad illuminare la sua disperata ricerca, per nove giorni percorse le terre che si desertificarono e sorvolò i mari che si gonfiarono tempestosi. Gli uomini, che non potevano più raccogliere i frutti della terra ed allevare gli animali, piombarono nella carestia e tralasciarono di onorare gli dei per i quali non disponevano più di offerte e sacrifici.
Tutti gli immortali tentarono di indurre alla ragione l’inconsolabile Demetra, ma ella non si pacificò se non in cambio della promessa che le sarebbe stata restituita la figlia.
Di fronte a tale sconvolgimento ed al languire di Persefone, Ade si rassegnò a restituirla, ma solo in apparenza.
A tradimento le fece inghiottire un seme di melograno, così la sposa, avendo interrotto il digiuno negli Inferi, fu condannata comunque a tornarvi.
Ormai per sempre ella avrebbe trascorso un terzo dell’anno nell’oltretomba, quando la terra si isterilisce nel buio sonno invernale, per tornare sulla terra con la madre in primavera, riportando nei campi il colore e la gioia dei fiori e dei frutti estivi.

Ade rapisce Persefone

Per questo mito di morte, rinascita e fecondità della natura le due dee, Demetra- Cerere e Persefone- Kore, furono quindi spesso venerate insieme in misteri e festività istituzionalizzate come le Tesmoforíe.
Queste feste celebravano Demetra sia comeTesmofora, la Legislatrice, fondatrice del matrimonio e delle leggi del vivere civile; sia come divinità istitutrice dell’agricoltura che, in lutto per la figlia, si era rifiutata di assolvere al suo ruolo di protettrice della crescita vegetale e dei raccolti.
Le Tesmoforíe si svolgevano in estate o in autunno e avevano una durata variabile secondo la città in cui venivano effettuate. Ad Atene si tenevano prima della semina, duravano tre giorni, erano interdette agli uomini ed aperte solo alle donne di condizione libera sposate con cittadini ateniesi.
Nel primo giorno le donne si recavano a pregare nel santuario, ilThesmophorion, nel secondo giorno digiunavano per purificarsi, nel terzo giorno offrivano a Demetra cereali, vino, formaggio, olio, cucinavano la carne degli animali sacrificati, banchettavano, si scambiavano motti lascivi e si flagellavano. Il rituale prevedeva anche che di notte le carcasse degli animali sacrificati fossero gettate in grotte o burroni, a simboleggiare la discesa nell’oltretomba di Persefone.
Ma ancora più legati al mito e partecipati dai fedeli furono i misteri Eleusini, le piccole e le grandi Eleusiníe, celebrate nel santuario della cittadina di Eleusi, unita ad Atene dalla lunga Via Sacra.
Le piccole Eleusiníe duravano tre giorni, avevano luogo tra febbraio e marzo ed alludevano al ritorno di Kore sulla terra, al risveglio primaverile della vegetazione, mentre le grandi Eleusiníe avevano luogo alla fine di settembre e significavano la discesa di Kore agli Inferi, ossia al ritorno della vegetazione nel letargo invernale. Queste duravano ben nove giorni e consistevano in una serie di riti e pubbliche rappresentazioni dei fatti legati alle due dee. Il momento più suggestivo della festa era, nel quinto giorno, la grande processione di fedeli incoronati di edera e mirto che sul far della sera muoveva da Atene lungo la Via Sacra per entrare ad Eleusi nel mistico silenzio della notte tra lo splendore di migliaia di fiaccole.
Dall’unione di Venere con Marte nacque Amore, l’Eros dei Greci, che ebbe come attributi l’arco incordato di porpora e le infallibili frecce a cui nessuno degli uomini e degli dei poteva sfuggire, perché è nell’amore il principio vitale, la più forte ma anche la più temibile potenza della natura.
Temibile e destabilizzante infatti perché, portato dalle lievi ali, il dio volgeva capricciosamente le sue attenzioni verso chiunque, con scarsissima considerazione per i legami parentali, per l’integrità dei vincoli già stabiliti, per le differenze tra i sessi. Ma venne il giorno in cui anche il giovane dio si punse con una delle sue infallibili frecce e si innamorò della delicata Psiche dalle ali di farfalla, che per la sua indescrivibile leggiadria aveva destato la gelosia di Venere.
Il dio, con l’aiuto di Zefiro, la nascose alle ire materne nel suo palazzo incantato in cui si recava tutte le notti ad incontrare la fanciulla, cui impose una sola condizione nella sua dorata prigionia, quella che i loro incontri si svolgessero sempre al buio.  Ma Psiche volle conoscere il volto dell’amante divino e mentre lo osservava incantata, una goccia d’olio rovente cadde dalla lucerna sul dio addormentato, risvegliandolo. Amore fuggì sdegnato e per la disobbediente ma pentita Psiche cominciò la crudele espiazione: vagò per tutta la terra cercando il perduto bene, tentò di ammansire Venere con i più umili servigi, supplicò gli dei, scese agli Inferi, fino a quando, mosso a compassione, Amore ottenne da Giove che la fanciulla fosse accolta tra gli immortali.  Mercurio, messaggero degli dei ed arcaico alter egomaschile di Venere, la trasportò in volo sull’Olimpo, dove i due giovani si sposarono, generarono la Voluttà e vissero felici per sempre.

Eros e Psiche

Il significato allegorico nascosto in questa tenera favola, che con varianti è presente in numerose culture, è che Psiche (l’anima) unendosi all’Amore e sublimando le pulsioni umane attraverso prove e purificazioni è in grado di raggiungere la salvezza e l’immortalità. Ma è anche un mito di rinascita e quindi primaverile: il segreto castello di Eros è in un rigoglioso bosco traboccante di fiori, un paradiso terrestre da cui Psiche si allontana per scendere sino all’Ade freddo, spoglio e tenebroso e da cui risorge per ascendere al luminoso Olimpo, condotta da Mercurio e sospinta da tiepidi Zefiri di primavera.

Oltre all’amabile figlio e alla giocosa schiera degli Amorini, facevano parte del corteggio di Venere una serie di altre divinità: le Ore, che presiedono al trascorrere delle stagioni; le Grazie, che donano tutto quello che abbellisce e rende gradevole la vita; Ebe, la giovinezza fiorente che versa ambrosia nella coppa degli dei e Mercurio, il messaggero immortale, che con la dea aveva generato Ermafrodito, l’unione inscindibile di maschile e femminile.
Stretti legami gli antichi hanno poi sempre visto fra Venere, Cerere – Demetra, dea dell’abbondanza e delle messi, e Bacco, dio del vino, nella saggia consapevolezza che i piaceri d’amore acquistano calore se accompagnati dal gusto della buona tavola e delle liete libagioni – Sine Cerere et Baccho friget Venus – ma anche che l’amore e quindi la fertilità non possono che essere legati alla fioritura e alla fruttificazione della natura.

Al corteggio di Venere partecipava anche la ninfa Clori, sposa di Zefiro, identificata per attributi ed assonanza linguistica con Flora, l’antichissima divinità italica che presiedeva alla fioritura, fenomeno di splendida bellezza ma anche fondamentale per i suoi effetti naturali, poiché una rigogliosa fioritura è la condizione essenziale per un abbondante raccolto. La dea fu quindi simbolo della primavera e protettrice, oltre che dell’agricoltura e dell’apicultura, della giovinezza e delle donne che desideravano un figlio.

Flora antica divinità italica della primavera

Con l’epiteto di ‘ministra di Cerere’, ad indicare lo strettissimo legame con la dea delle messi, in suo onore si celebravano a Roma dal 28 aprile al 3 maggio solennissime feste, le Floralia. Ci si incoronava di fiori, si incoronavano gli usci delle case, ci si abbandonava a giochi licenziosi.
Come personificazione della primavera Flora è stata sempre molto amata da tutte le arti, dalla pittura, alla poesia, alla musica, ed una delle rappresentazioni più celebri è quella del francese Nicolas Poussin (Les Andelys 1594 – Roma 1665), che ne raffigura il trionfo al centro di personaggi il cui mito è legato alla trasformazione in fiore. Il quadro, dipinto intorno al 1630 ed ora alla Gemaldegalerie di Dresda, si ispira a L’Adone di Giambattista Marino (Napoli 1569 – 1625), poeta a cui il pittore era profondamente legato.
Tradusse infatti in immagini le più famose favole mitologiche derivate dalleMetamorfosi di Ovidio ed inserite nel poema. Il quadro venne a sua volta tradotto nell’incisione di Gérard Audran (Lione 1640 – Parigi 1703) posseduta dalla Casanatense.
Seguendo l’iscrizione e osservando da destra a sinistra l’incisione di Audran la prima metamorfosi rappresentata è quella di Aiace cambiato in giacinto, fiore che l’eroe suicidandosi con la spada di Ettore macchiò di sangue con segni che ripetono sui petali le iniziali del suo nome ‘AI’ ‘AI’.
Viene qui recepita una versione meno diffusa del mito, mentre oltre l’immagine di Flora viene rappresentato anche Giacinto, il quale, come narra la più nota versione, era un giovane amato sia da Apollo che da Zefiro. Questi, divorato dalla gelosia, mentre i due amanti gareggiavano nel lancio del disco ne deviò la traiettoria uccidendo il giovinetto. Apollo, ad imperituro ricordo, trasformò l’amato nel fiore che avrebbe per sempre portato sui petali impresso il suo grido di disperazione.
Ancora Apollo è il protagonista del mito di Clizia trasformata in girasole. La fanciulla, innamorata ma non contraccambiata dal dio, si perse nella disperata contemplazione dell’amato sino a lasciarsi morire di fame. Apollo, finalmente commosso, la trasformò in girasole, il fiore che si volge sempre verso il sole, così che Clizia non smettesse mai di cercare e di trovare il suo amato (Apollo=Sole) con lo sguardo. Dopo Giacinto è raffigurato Adone, ma nell’iscrizione è contenuta un’imprecisione che ne indica la metamorfosi in passiflora invece che in anemone, errore indotto probabilmente proprio dal capolavoro barocco del Marino, che nel canto VII ha un celebre elogio della pianta recentemente importata dalle Americhe.
Stranamente anche questo errore riporta Adone ad un legame con la Pasqua cristiana; infatti la passiflora viene detta anche fiore della Passione, poiché il padre Giacomo Boiso nel Trattato sulla Crocifissione di Nostro Signore del 1610 la descrisse dettagliatamente individuando in essa gli strumenti della Passione di Cristo: i tre stigmi rappresentano i chiodi, le cinque antere indicano le ferite, i filamenti a raggiera ricordano la corona di spine, lo stilo al centro la colonna della flagellazione, gli stami ingrossati la spugna imbevuta di aceto, i dieci petali gli Apostoli – con esclusione di Giuda e Pietro – la foglia la lancia, i viticci lo staffile.

Dopo il mito di Adone l’iscrizione fa menzione della favola di Narciso, qui raffigurato mentre si specchia in una conca. Il bellissimo giovane, orgoglioso della propria bellezza di cui tutti si invaghivano, disprezzava però l’amore, preferendo piuttosto passare le sue giornate cacciando.
Tra le sue spasimanti era la ninfa Eco – condannata da Giunone a ripetere sempre le ultime parole che udiva, poiché con le sue chiacchiere aveva tentato di distrarre la dea per impedirle di scoprire le infedeltà di Giove. Rifiutata da Narciso, si nascose nei boschi fino a scomparire, consumata dall’amore, e a restare solo un’eco lontana. Di fronte a tanta crudele insensibilità tutti gli innamorati disprezzati da Narciso invocarono la vendetta di Venere ed egli venne condannato ad essere sedotto dalla sua immagine riflessa nell’acqua.
Disperato Narciso tendeva le braccia verso il fiume e si struggeva in inutili lamenti, finché, resosi conto dell’impossibilità del suo amore, si lasciò morire e quando le ninfe cercarono il suo corpo trovarono vicino allo specchio d’acqua il fiore omonimo. L’ultimo mito citato l’incisione di Audran è quello di Croco, che in seguito all’amore infelice per la ninfa Smilace, poiché l’amore fra un mortale ed una immortale era vietato, fu trasformato dagli dei impietositi nel fiore omonimo, mentre la ninfa veniva trasformata in salsapariglia (Smilax aspera).
Anche questo ultimo personaggio aveva una doppia natura di morte e di rigenerazione, tanto che negli antichi rituali il croco era il fiore che veniva sparso sul letto degli sposi, ma anche il fiore ctonio, legato alla sfera funeraria e gettato nei roghi funebri.

Da  casanatense.it

Foto: Rete

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