Nel patrimonio naturalistico della Basilicata si annoverano anche due notevolissimi endemismi, curiosamente presenti negli opposti estremi meridionale e nord-occidentale del suo territorio. Si tratta in particolare del Pino loricato, conifera di seconda grandezza che occupa anche il versante lucano del massiccio del Pollino, e di una grande farfalla notturna comunemente denominata Bramea europea, ascrivibile al Cenozoico medio-recente ed appartenente ad una famiglia dell’Asia orientale, la cui esistenza – caso assolutamente unico nel continente europeo – è stata scoperta da appena quaranta anni in una assai ristretta zona dell’area del Vulture.
La loro presenza nell’odierna terra lucana è connessa alle grandiose glaciazioni del Quaternario, che imprigionando le acque sulla terraferma ed interrompendo il loro ciclo naturale (oltre a frequenti e visibili casi di modellamento di suoli per l’abrasione provocatane sul fondo e sui lati dai ghiacciai nei loro movimenti di avanzata e di successivo ritiro, a più particolari e specifici casi di subsidenze e successivi reinnalzamenti di aree marine e terrestri, ecc.) provocarono anche, per l’evidente vicissitudine climatica, ampie migrazioni di flore e faune di clima caldo da molte direttrici.

Le linee di costa dell’Italia nel Pliocene.
Si sa che in epoca più antica, ossia nel corso del Pliocene (durato da 5 a 3 milioni di anni fa e costituente l’ultimo periodo dell’Era geologica Terziaria, a sua volta lunga complessivamente 63 milioni di anni e denominata anche Cenozoica, cioè “della vita recente” per l’impulso evolutivo e la diffusione dei mammiferi), in accentuazione di quel raffreddamento già delineatosi sul finire del molto arido Miocene, il clima sul Pianeta si attestò su livelli sostanzialmente di tipo temperato e secco. Questa significativa modifica climatica provocò la quasi completa scomparsa di palmizi ed altre specie vegetali consimili nella parte settentrionale di un’Europa che ormai non risultava più posizionata su latitudini tropicali.
Quanto allo scenario italiano in particolare, per il completamento del sollevamento – iniziato nel medio Terziario – delle Alpi e degli Appennini, su di una assai incerta e lacunosa Penisola si produsse anche l’effetto di un adattamento all’altitudine per molte piante, ormai simili a quelle attuali per evoluzione e adattamento a un clima temperato (che si sostituì ai livelli di segno caldo- umido caratteristicamente presenti su di essa nel precedente Miocene). E questo, in un quadro geografico che, per una temporanea trasgressione marina, tra l’altro evidenziava una Calabria costituita da una serie di isole ed una futura Pianura Padana vistosamente sommersa da un Adriatico assai più esteso.
Già apparse in più remote ere geologiche, intense ed ancora più imponenti glaciazioni intervennero invece nel corso dell’Era Quaternaria o Neozoica, con fasi alterne di avanzamento (periodi glaciali) e di successivo ritiro (periodi interglaciali, di clima caldo) di ghiacci polari e/o vallivi, e con una incidenza che fu notevolmente più vistosa sulle latitudini settentrionali del Pianeta: Nordovest della Siberia, Nord-America fino alla regione orientale dei Grandi Laghi ed oltre, Europa fino alla odierna latitudine della Frisia e del Tiefland o Bassopiano Settentrionale Tedesco. (Nelle zone equatoriali si determinarono, invece, coeve e pressoché omologhe alternanze di “pluviali” ed aridi “interpluviali”, specialmente in Africa).
Ed appare utile far menzione da ultimo alla circostanza che, quantunque più breve e relativamente meno movimentata del precedente Cenozoico, l’Era Quaternaria presenta anche una importanza geologica che peraltro ci riguarda da vicino, per l’esordio di intensi ed assai diffusi vulcanismi – Flegrei, Roccamonfina, Vulcani laziali e Vulture compresi – che, in sinergia con i vulcani già attivi, apportò gli ultimi ritocchi alla definitiva morfologia nel centro ed al sud di una Penisola italiana che ormai era divenuta riconoscibile (e che, agli albori della stessa era, tra l’altro mostrava lungo l’area orientale della futura Lucania un ampio e basso canale tra lo Ionio e l’Adriatico, poi cancellato dai depositi alluvionali interglaciali che culminarono nella formazione della Pianura Metapontina)
Ad intervalli irregolari, le glaciazioni del Quaternario occuparono, in particolare, il periodo denominato Pleistocene, cioè “moltissimo recente” poiché (inaugurando l’era geologica) durò dagli ultimi 2 milioni di anni sino a circa 10.000 anni fa, segnando anche la comparsa dell’uomo ed il suo preistorico cammino in tutte le fasi del Paleolitico.

Areale di Pinus heldreichii, nel riquadro rosso è evidenziata la popolazione appenninica di Pinus heldreichii subsp. Leucodermis, vale a dire il pino loricato italiano
Con terminologia diversa rispetto agli altri continenti, in riferimento alla regione alpina ed all’Europa più in genere, dalle valli fluviali dell’Altopiano Svevo-bavarese in cui vennero studiati i rispettivi fenomeni morenici, queste glaciazioni risultano tradizionalmente definite e classificate nel seguente ordine di successione: Donau (Danubio, ma questa glaciazione è invero controversa), Günz, Mindel e Riss suoi diretti affluenti, ed infine (da 100 mila circa a 12-10 mila anni fa e con tre distinti periodi di espansione) Würm emissario del Lago di Starnberg ed affluente dell’Amper.
Tipicamente costituite – come già detto – da espansioni, anche verticali, dei ghiacci polari sulle latitudini più settentrionali del pianeta, su quelle centro-setentrionali le grandi glaciazioni del Quaternario si manifestarono invece con una generalizzata caduta intorno a 10-15 gradi nelle temperature medie che (con altri notevoli fenomeni tra cui una discesa di grandi lingue glaciali lungo l’intera base dell’arco alpino, una presenza di ben più modesti ghiacciai sulla catena appenninica fino alla latitudine della Sila, oltre ad una trasformazione in steppa e/o in tundra di gran parte della Francia settentrionale) provocò anche un abbassamento di 100 metri in media nel livello di oceani e mari interni. In alcuni casi ciò favorì, anche in questi ultimi, temporanee emersioni di istmi e variamente estesi ponti di terra tra le sponde più prossime, con l’ulteriore e sostanziale effetto di determinare una fisica condizione per le accennate migrazioni di flore e faune di clima caldo alla continua ricerca di condizioni ambientali più adatte, in periodi ovviamente propizi e con percorsi che giunsero a coprire addirittura 10 gradi di latitudine.
Nell’area mediterranea questi abbassamenti marini interessarono (oltre all’Egeo) l’alto e il medio Adriatico fino all’altezza del Gargano dove, in particolare, la costa pugliese si avvicinò di molto a quella balcanica.
Partecipe dei movimenti di “fitomigrazione” fu pure il Pino loricato che, movendo dalla originaria area balcanica, avanzò fino al territorio appenninico oggi posto al confine tra Basilicata e Calabria.
Vero e proprio “fossile vivente” (espressione darwiniana attualmente usata per indicare l’ultimo, e praticamente eguale, rappresentante di un gruppo sistematico molto diffuso in passati periodi geologici) questa conifera ascrivibile al Cenozoico ha peraltro attraversato decine di milioni di anni in un assoluto anonimato naturalistico che è durato fino al XIX secolo dell’era presente: soltanto nel 1864, infatti, essa venne individuata nell’area balcanica centro-occidentale dal botanico austriaco Franz Antoine, che la descrisse e classificò con il nome pinus leucodermis (cioè: pino dalla pelle bianca), per il colore grigio-bianco della corteccia dei rami negli esemplari giovani.
In terra italiana, invece, dopo un inconsapevole rinvenimento nell’estate del 1826 ad opera del famoso botanico napoletano Michele Tenore (che purtroppo, come altri in seguito, la confuse con una affine e compresente conifera), nell’anno 1905 il “pinus leucodermis” venne scoperto anche sul massiccio calcareo del Pollino, in esito a varie esplorazioni condotte dal botanico Biagio Longo . L’ insigne cattedratico calabrese individuò, infatti, questa conifera sui versanti del monte Pollino, sulla catena dell’Orsomarso in territorio cosentino ed altresì sul Monte La Spina e nella Serra di Crispo in territorio lucano, riconoscendone appunto la esatta corrispondenza alla varietà che era stata scoperta quarant’anni addietro nell’area balcanica.
Va ricordato che allo stesso Longo si deve pure la iscrizione del leucodermis tra le specie italiane ed altresì la denominazione – poi affermatasi nel linguaggio italiano corrente – di “pino loricato”. Merita segnalarsi, a tale riguardo, che l’opzione aggettivale verosimilmente intendeva anche attribuire un legittimo risalto all’elemento italiano di una cittadinanza botanica risultante ormai duplice: infatti le ruvide e fessurate placche poligonali presenti nella spessa corteccia degli esemplari adulti evocano con decisa immediatezza (ancor prima, cioè, di quella spesso richiamata in zoologia) la “lorica” tipicamente in uso nelle legioni dell’antica Roma e costituita in origine da una non rigida corazza di cuoio guarnito da scaglie.
L’elemento della corteccia si riflette, peraltro, anche nei nomi comuni con cui questa conifera è conosciuta nelle altre lingue: (in aggiunta a Bosnian pine) Withe-bark pine o Pale-bark pine in inglese, Pin d’écorche blanche in francese (in questi casi, con riferimento al suo colore chiaro), Panzer-kiefer in tedesco (qui con riferimento al già accennato aspetto di corazza).
Nel greco moderno il nome comune risulta invece , verosimilmente in singolare derivazione dal dialetto neolatino dei Vlachi (minoranza linguistica distribuita in tempi passati nel montuoso territorio dell’Epiro e della Macedonia nonché sui monti della Tessaglia) presso il quale la traslitterazione del termine latino “robur” avrebbe prodotto, nel corso del tempo, una metasemia e cioè la perdita dell’originario significato di “quercia” ed il conseguente acquisto, nella forma lessicale predetta, di quello indicante la conifera di cui si tratta.
Mette conto di aggiungere, per inciso, che in ristrette zone del distinto versante centro-orientale della stessa Penisola Balcanica risulta presente anche l’assai simile “pinus heldreichii, Christ”, così classificato in onore dell’eminente botanico balcanista Theodor von Heldreich (che lo aveva materialmente scoperto sul monte Olimpo) dal giurista svizzero appassionato di scienze naturali Konrad Hermann Christ, cui va precisamente ascritta la sua identificazione nell’anno 1863. A ciò va ulteriormente aggiunto che, ad avviso di molti studiosi, detta conifera costituirebbe col leucodermis una varietà “vicariante” di un’unica specie, essendosi entrambi differenziati da un progenitore comune per fattori geografici e/o ecologici in genere. Questa ultima circostanza costituisce, peraltro, il probabile il motivo per cui in letteratura si è soliti parlare congiuntamente di Pinus heldreichii, Christ e/o Pinus leucodermis, Antoine sia pure con la debita precisazione che in Italia quest’ultimo vegeta spontaneamente, ad indiretta conferma della sua notevole significatività geobotanica.
La scoperta del Longo – che per i suoi insigni meriti accademici e scientifici in seguito divenne anche Linceo – evidenziò dunque che, in aggiunta a quello di origine nel settore centro-occidentale della Penisola Balcanica (Bosnia e Montenegro, oltre che in ristrette zone della Grecia centro-orientale), l’odierno areale del “pinus leucodermis” risulta più esteso poiché interessa anche l’Italia meridionale nel Massiccio calcareo-dolomitico del Pollino dove, pur rappresentando ovviamente una specie relitta, ossia il residuo di una notevolmente più diffusa presenza in epoche arcaiche, risulta largamente e discontinuamente distribuito con alcune migliaia di esemplari isolati o in colonie a seconda dei casi.
Per quanto concerne la parte del Massiccio in territorio lucano, unitamente agli esemplari rinvenibili sul corrispondente versante del Monte Pollino e (qui con 2.000 esemplari) sulla Serra del Prete m. 2.181, e su Timpa della Capanna m. 1.823, questa conifera risulta presente con pinete aperte sulla già citata Serra di Crispo e, in altitudine e concentrazione massime, sulla Serra delle “Ciavole” (nome dialettale delle taccole: piccoli corvidi caratteristicamente presenti nel sito) m. 2127 s.m. nonché, in minor misura, sui pascoli o pareti rocciose del Monte Alpi presso Latronico (contrafforte calcareo a nord-ovest del Pollino), del Monte Zaccana e del Monte La Spina presso Lauria (qui frammisto al faggio).
Quanto al territorio di Calabria, vanno invece annoverati il corrispondente versante dello stesso Monte Pollino e, in sequenza est-ovest: il Monte Manfriana, la Serra Dolcedorme, la Timpa di Viggianello m. 1.779 e le cinque vette del citato gruppo dell’Orsomarso.
Le notevole altitudine di queste vette (dai 1893 m. del Monte Alpi ai 2053 m. della Serra di Crispo, dai 2248 m. del Pollino ai 2267 m. della Serra Dolcedorme costituente, in particolare, la cima più alta del Massiccio) lascia desumere una specialissima caratteristica di questa conifera: per la pressione del più forte ed invadente faggio/fagus silvatica, nel corso degli ultimi milioni di anni in quest’area il pino loricato ha compiuto anche una migrazione di segno verticale che lo ha portato a raggiungere anche quote superiori a 2.100 metri s.m., sicché essa risulta l’unico albero che sugli Appennini riesce a vegetare più in alto delle faggete.
Ciò ha naturalmente prodotto effetti sia nello “stile di vita” che nella fisionomia. Infatti, a fronte di una estrema frugalità vegetativa, anche perché risulta generalmente insediato su di un substrato calcareo, il Pino loricato evidenzia processi riproduttivi estremamente faticosi e lenti, che si esprimono con una germinazione del seme lunga due anni a fronte dei 10-15 giorni occorrenti ai semi delle altre conifere e con un accrescimento che risulta 6-7 volte più lento che in altre specie.
Il portamento, per contro, risente ovviamente delle estreme condizioni ambientali sue proprie, assolutamente proibitive per altre specie. Malgrado sia generalmente classificato albero “di seconda grandezza”, gli esemplari in colonia (Serra di Crispo e Serra delle Ciavole) evidenziano in effetti un’altezza maestosa prossima ai 40 metri e un diametro del tronco fino a m. 1,60; gli alberi che vegetano isolati su rocce e costoni impervi mostrano per converso forme contorte e tormentate, con cima tabulare cioè appiattita e con un orientamento dei rami scolpito “a bandiera” dall’incessante e terribile forza dei venti sulle alte quote.
Gli esemplari più vecchi di questa conifera si distinguono, infine, per il tronco bianchissimo e resinoso, ormai privo delle scaglie sulla corteccia. E mette conto di aggiungere che la resinosità del legno (qualità merceologica che pure ne ha determinato perniciosi sfruttamenti in tempi passati) fa sì che esso marcisca con molta lentezza dopo la morte della pianta, con l’ulteriore e suggestivo effetto di esemplari non più in vita che non crollano al suolo ma restano eretti per anni, trasformati in veri monumenti arborei.
Gli studiosi qualificano espressamente il Pino leucodermis come un paleoendemita: categoria naturalistica indicante entità tassonomiche che risultano limitate ad aree più o meno ristrette e che, in particolare, hanno praticamente ultimato il loro cammino evolutivo. La straordinaria vitalità che lo ha condotto ai nostri giorni deriva verosimilmente dall’accentuata combinazione di caratteristiche botaniche particolari e al tempo stesso preziose in rapporto all’habitat: è infatti specie eliòfila (vegeta molto bene alla diretta e forte luce del sole) e xeròfila (grazie a particolari adattamenti fisiologici e/o morfologici, riesce a tollerare condizioni di siccità prolungata o terreni fisiologicamente secchi) ed è inoltre una “pianta pioniera” e rupicola (tende ad insediarsi in un dato ambiente e, come pure si è accennato, riesce a vivere anche su pendii impervi e su pareti rocciose).

Caratteristica della corteccia
Con una popolazione complessiva di alcune migliaia di esemplari, tra Calabria e Basilicata, che ne fa un albero tra i più rari in Italia, il pino loricato risulta esserne anche il più antico in assoluto, in un vasto insieme di piante plurisecolari: è degno di nota, infatti, che una analisi dendrologica eseguita con carotaggio a 1,00 m. circa dal suolo e successiva verifica per interdatazione (procedura detta in gergo: cross-dating) ha certificato nell’anno 1989 una età di 963 anni in un soggetto presente nel versante calabrese del Pollino.
Va pure aggiunto che, a dispetto della sua rarità e malgrado contrarie apparenze, il pino loricato non appare in regressione, ma accenna piuttosto a promettenti riprese giacché il fenomeno di una diminuita pratica del pascolo sugli assai ventosi Piani d’alta quota nel Massiccio (morfotipi piuttosto rari nell’Appennino Meridionale) ha fatto sì che i germogli siano sempre meno esposti ai morsi del bestiame. A questo può aggiungersi che la sua accennata adattabilità e la resistenza all’aridità estiva ed al gelo rendono addirittura plausibile l’ipotesi di avviarne articolati rimboschimenti sul Massiccio, sia pure a scopo di semplice protezione per via dell’accrescimento assai lento e sulla scia, peraltro, dei fortunati esperimenti condotti negli anni 1958-60 particolarmente nella Serra Dolcedorme: versanti più elevati di Valle Piana e Valle Cupa. E ciò, a tacere di una sua teorica utilità per rimboschimenti su quote elevate degli Appennini in genere, posto che il suo limite vegetazionale risulta ad es. praticamente doppio di quello del “pinus nigra” e sue sottospecie geografiche.
Il Pino loricato è, infine, il simbolo del Parco Nazionale del Pollino (Area protetta tra le più grandi d’Europa: circa 196.000 ettari tra Calabria e Basilicata nel territorio di 56 Comuni di cui 24 lucani), istituito con personalità di diritto pubblico con il D.P.R. 15/11/93 in attuazione della Legge Quadro sulle Aree protette.
In dipendenza delle glaciazioni avanzò da oriente verso l’Europa meridionale anche il frassino, albero caducifoglie risalente al I° Miocene e classificato “di prima grandezza” cioè di notevolissime dimensioni, che oggi risulta presente nella flora italiana con tre forme tipiche: fraxinus excelsior, fraxinus ornus e fraxinus angustifolia. In particolare, una varietà di quest’ultimo precisamente classificata Fraxinus oxycarpa M.Bieb (Marschall von Bieberstein) e comunemente denominata frassino ossifillo realizzò una diffusione particolarmente significativa nel Sud e nelle Isole maggiori della Penisola Italiana, dove oggi si caratterizza come componente essenziale di formazioni ripariali ed in genere di boschi igrofili.
A questo ultimo caso, in sé ordinario, di fitomigrazione va però riconosciuta una notevolissima importanza naturalistica con particolare riferimento ad una zona pedemontana del monte Vulture (vulcano oggi spento, unico nel versante adriatico degli Appennini).
Infatti, nella ristretta area “Le Grotticelle”, arcaica formazione silvo-botanica posta ad un’altitudine tra 295 e 719 m. sm. e compresa tra gli adiacenti Laghi craterici di Monticchio e la Fiumara di Atella la presenza, da un lato, di significativi nuclei di frassino ossifillo tra altre e varie specie igrofile e la ricorrenza, dall’altro lato, di particolarissime condizioni microclimatiche di segno caldo umido hanno reso possibile, con un carattere di assoluta eccezionalità, la sopravvivenza di una grande farfalla notturna di origine asiatica, denominata Bramea europea e considerata anch’essa un relitto del Miocene: 26-7 milioni di anni fa.

Bramea europea
La scoperta di questo altro ed autentico fossile vivente è dovuta all’entomologo altoatesino conte Federico Hartig che nell’aprile del 1963, nel corso di una delle sue molte spedizioni scientifiche nell’Italia Meridionale, riconobbe appunto nella area boscata anzidetta una farfalla notturna appartenente alla rarissima famiglia delle Brameidi, ascrivibile al Cenozoico medio-recente e costituita da appena cinque generi e dieci specie, dei quali era nota fino a quel momento una distribuzione unicamente extraeuropea: tra l’Anatolia e la Corea, passando per la Regione Etiopica.
Di fronte a questo eccezionale ed impensato caso di endemismo paleartico (diffusione esclusiva in areale assai circoscritto di una specie della regione biogeografica paleartica, facente parte del regno faunistico dell’Artogea), per evidenziarne l’unicità rispetto all’intero continente europeo l’Hartig intese indicare questo nuovo genere di falena col nome di Bramea “europea”; e tale concetto risulta in effetti recepito nella comunità scientifica, che appunto la classifica: Achanthobrahmaea europaea, Hartig.
(Nelle altre lingue i nomi comuni con cui la Bramea europea viene indicata sono i seguenti: Hartig’s Brahmea o European Brahmin o European owl moth in inglese, la Brahmaéide d’Hartig in francese).
Le ragioni della eccezionale sopravvivenza nella nicchia boscata delle “Grotticelle” di questa falena vanno ovviamente ricercate, oltre che nella peculiarissima qualità dell’habitat, negli adattamenti di carattere etologico che essa ha dovuto assumere.
Infatti, posto che nella quasi totalità dei lepidotteri la dieta delle larve è, da un lato, di tipo vegetale (con l’utilizzo di un apparato boccale che in questa fase della metamorfosi risulta di tipo masticatorio e non succhiante) e, dall’altro lato, prettamente specializzata quanto alla pianta nutrice, va precisato che nel caso specifico il ciclo vitale della Bramea risulta strettamente legato alla presenza del fraxinus oxycarpa olacea e che, per conseguenza, il bruco si nutre delle sue foglie e non di altre (anche se va pur fatta menzione di un occasionalissimo rinvenimento di bruchi nell’anno 1997 su un cespuglio di Phyllirea Latifolia Linnè).

Bramea Europea
Per altro verso, al termine della stasi invernale comune a tutti i lepidotteri in vari stadi della loro metamorfosi a seconda dei casi, l’esemplare adulto della Bramea di Hartig compare piuttosto precocemente, con una unica generazione e soltanto per poche ore nelle notti di aprile e maggio allorché, con tratti climatici evidentemente assai simili a quelli già accennati del Miocene, in questo biotopo dai sostanziali caratteri di un’isola interglaciale appropriatamente si esprimono particolari valori di umidità in un clima relativamente temperato.
Dopo avere fatto menzione del fototropismo positivo delle farfalle notturne o falene (vengono attratte dalle fonti luminose) va aggiunto che l’esemplare adulto di questo lepidottero, oltre ad una apertura alare che raggiunge i 7-8 cm., mostra – come tutte le falene in genere – un corpo piuttosto tozzo, antenne bipettinate (il che, secondo il criterio adottato dalla sistematica meno recente, ne determina l’appartenenza al sottordine degli Eteròceri per le “antenne di tipo differente”, da quelle terminate a clava e tipicamente proprie delle farfalle diurne) ed infine quattro ali – di cui due ocellate – caratteristicamente spioventi in posizione di riposo e dai toni cromatici piuttosto smorti che molto bene lo confondono con i tronchi e l’ambiente in genere: mimetismo auspicabilmente efficace anche nei confronti di ingenue o riprovevoli attenzioni dell’uomo.
Merita pure di segnalarsi che gli esemplari maschi di questa falena mostrano abitudini crepuscolari leggermente anticipate rispetto a quelle delle femmine e che, per altro verso, sono risultate anche comunicazioni di occasionalissimi e fortuiti avvistamenti nella valle dell’Ofanto e nell’alta valle del Basento.
Mette conto di aggiungere, da ultimo, che per opportunamente tutelare sia questo eccezionale endemismo che il biotopo in cui esso si manifesta, nella predetta Area delle Grotticelle, estesa 209 ettari all’interno della Foresta demaniale di Monticchio, è stata istituita nell’anno 1971 una Riserva Naturale Orientata e Biogenetica (tipologie che rispettivamente esprimono la previsione di attività umane compatibili nel comprensorio e la destinazione allo studio e conservazione del patrimonio vegetale ivi esistente) e che essa si segnala, peraltro, per essere stata nel mondo la prima area protetta rivolta di fatto alla protezione esclusiva di una farfalla.

Bramea Europea
Appare infine opportuno, anche in deferente tributo alla insigne memoria dell’entomologo Federico Hartig (1901-1979), riportare in questa sede la seguente postilla. Nell’anno 1966 avvenne nel Vulture la eccezionale scoperta di una Farfalla diurna considerata “relitto igrofilo”, che gli Autori del rinvenimento intesero identificare in una varietà delle Nymphalidi che fino ad allora era considerata esclusiva dell’arco alpino e pianure limitrofe: Melitaea diamina Lang, var. orientalpestris.
Questa nuova emergenza naturalistica (che peraltro preludeva ad ulteriori scoperte sui non molto distanti Monti Picentini e del Matese in anni successivi) venne invece ritenuta dall’Hartig nuova sottospecie distinta e peculiare all’area geografica del Vulture per cui, in una sua pubblicazione del 1968, ne propose la classificazione in termini di: Melitaea diamina “nigrovulturis” (n.ssp).
Al termine di queste note essenzialmente divulgative non può omettersi di considerare che anche il Pino loricato e la Bramea europea mostrano ovviamente una inerme fragilità di fronte ai molti pericoli che di fatto, per cause accidentali o per ragioni direttamente ascrivibili ad attività e comportamenti dell’uomo, pur sempre minacciano il vasto insieme dei tesori naturali. Questa riflessione, purtroppo confermata in molti casi dall’esperienza, ammonisce pertanto sulla necessità che nella coscienza di ognuno venga sempre e costantemente avvertita, accanto ed ancor prima di uno spontaneo ed ammirato rispetto, una convinta sollecitudine che valga a conservarli, soprattutto per le generazioni future. E ciò in ossequio, del resto, a quel duplice patto non scritto che – per quell’antico proverbio ricordato dal Saint-Exupéry – in pari misura lega l’uomo sia ai suoi predecessori dai quali ha ricevuto in affidamento i tesori della natura sia ai suoi figli, cui dovrà “restituirli” questi essendone i veri padroni.
Giuseppe Padula – Dirigente Struttura di Progetto M.S.C.
Le foto della farfalla sono prese dalla Rete