TRA I REDUCI – Arturo

 

Le guerre raccontate nei libri spesso sono asettiche: battaglie, generali con le loro strategie, vittorie e sconfitte, conquiste e perdite.

Le guerre raccontate da chi le ha combattute o subite hanno un altro volto.

Leggete lo sfogo amaro e sconsolato di Arturo Farace, che si è trovato a combattere nell’inferno della Libia, una guerra della quale ancora oggi è difficile digerire le ragioni.

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Cognome e nome : FARACE ARTURO
Classe : 1920
Arma e corpo : ARTIGLIERIA
Fronte : LIBIA
RIEVOCAZIONI
La mia partenza per il fronte avvenne il 15 marzo 1940, avevo solo 20 anni, ho combattuto per ben tre anni in Libia e, fatto prigioniero dagli Inglesi e deportato in Inghilterra, sono tornato a casa nel 1946. Non potrò mai dimenticare la sofferenza di quegli anni che vorrei cancellare dalla mia mente, ma mi è impossibile farlo.

Ascoltavamo continuamente canzoni quali “Vincere e vinceremo” e “Lili Marlen”, ma io e tutti i miei compagni eravamo consapevoli e fermamente convinti che l’Italia non era in grado di sostenere una guerra di simile portata e che sicuramente avrebbe avuto la peggio.

Nessuno di noi aveva entusiasmo per ciò che Mussolini ci costringeva a fare. Ero stato arruolato nell’artiglieria e assegnato alle “batterie volanti”, ossia all’uso di potenti mitragliatrici poste su mezzi che permettevano un rapido spostamento. Pertanto, essendo in continuo movimento, mi era difficile avere una regolare corrispondenza con la
mia famiglia. Oltre alle mitragliatrici e ai cannoni, anch’essi posti su mezzi di spostamento, ciascuno di noi era dotato di bombe a mano e di moschetto.

La strategia che usavamo più spesso era quella di attaccare velocemente e ritirarci senza alcuno indugio allorché constatavamo la superiorità nemica. Ciò che più ci irritava non era tanto l’inferiorità militare, quanto il fatto che a combattere erano sempre gli stessi, i compiti più difficili erano dati continuamente ai soliti.

Il nostro equipaggiamento era alquanto scadente, soprattutto i vestiti sempre stracciati e raramente sostituiti con nuovi. Ma ancor peggio erano le condizioni igieniche, poiché pidocchi e pulci ci divoravano. Il rancio, una brodaglia insipida, era sempre arricchita dalla presenza di mosche    morte, mentre nel pane non mancava mai la sabbia. La sete l’ho
sofferta comunque più di ogni altra cosa: per trovare un po’ d’acqua dovevamo spostarci per dei chilometri, c’è stato chi per la disperazione ha bevuto le proprie urine. Ciò non deve stupire in quanto la disciplina che regolava il nostro agire era durissima, i superiori spesso ci maltrattavano e davano facilmente dure punizioni. Ricordo che un
giorno per essermi allontanato alla ricerca d’acqua, fui denudato e cosparso di marmellata, quindi legato ad un cannone, fui lasciato sotto il sole fino al tramonto, mentre le mosche venivano continuamente attirate sulla mia pelle ed io, impossibilitato alla difesa, ebbi la sensazione d’impazzire. Il giorno dopo sfogai la mia rabbia sulle mosche:
cosparsi una tavoletta di marmellata e come esse vi si posavano le uccidevo servendomi di un’altra tavoletta.

Ciò di cui non posso lamentarmi è la distribuzione di sigarette, a ciascuno ne venivano dato centocinque a settimana.

Una vera festa era comunque la cattura, seppur rara, di prigionieri inglesi! Infatti erano fornitissimi di cibo in scatola, di biscotti e di ogni altra sorta di viveri che noi nemmeno sognavamo, per noi un vero bottino. Ciò che mi è rimasto più impresso nella mente erano i Natali, passati nell’indifferenza e senza il conforto e l’affetto di nessuno. Ancora oggi avverto la tristezza di quei giorni e ricordo con estrema lucidità il Natale che ci promisero con tanta enfasi un rancio speciale, che poi si rivelò la quotidiana brodaglia arricchita da qualche pezzetto di carne; chi riusciva ad averne
nella propria razione era veramente fortunato. Ogni tanto specialmente sotto le festività ci davano un limone.
Ancora non capisco perché con la Sicilia a due passi non arrivassero invece delle arance.

L’unico motivo di distrazione per tutti i soldati, in quell’inferno, era la presenza di case di prostituzione, vi si trovavano prostitute nere, tedesche, italiane ed arabe; il sesso era l’unico modo per sentirci ancora esseri umani.

Da “Tra i reduci dell’Alto Tirreno Cosentino”

Un grazie a Franco Farace per il materiale che mi ha fornito.

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2 Replies to “TRA I REDUCI – Arturo”

  1. Filomena ha detto:

    Ho i brividi… mio zio Arturo è un’immagine nei miei gioiosi ricordi di bambina…prima di questo istante non conoscevo e non immaginavo questa sua forte esperienza di vita! E’ vero…ogniuno di noi è un libro…un grazie a Franco ed ancora un grazie a chi raccoglie e divulga la “storia di un paese”…

  2. Filomena ha detto:

    Scusatemi…correggo: ognuno!

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