Le radici malate della democrazia in Italia 1

Cavour

 

In campo politico il fatto più notevole all’inizio del ‘900 era un triste abbassamento di livello della vita parlamentare. Ora che ci si poteva volgere indietro a considerare in prospettiva quarant’anni di storia, appariva chiaro che il parlamento non era mai stato sano.

L’Italia non era stata ancora capace di assimilare o superare l’esperienza della Francia, dell’Inghilterra e dell’America e di sviluppare stabili tradizioni sue proprie. Il parlamento non era riuscito a impedire la corruzione. Nel 1896 numerosi direttori di banche vennero arrestati per truffa a Torino e Napoli, e fu altresì scoperto che il comune di Palermo non aveva pubblicato per cinque anni i suoi bilanci (il responsabile del tesoro municipale, un’altra delle losche conoscenze di Crispi, non riuscì a spiegare la mancanza in cassa di 1 milione di lire).

Dal 1860 in poi la centralizzazione governativa aveva continuato a rafforzarsi senza che a ciò facesse riscontro un analogo sviluppo delle istituzioni rappresentative tale da assicurare le libertà essenziali e un sufficiente controllo dell’opinione pubblica. Cavour si era reso conto già molto tempo prima dei pericoli insiti per il liberalismo nel progresso della democrazia di massa, e ciononostante era stato egli stesso costretto a ricorrere a plebisciti basati sul suffragio universale maschile. Aveva previsto come i concetti di eguaglianza, una volta assimilati nelle consuetudini sociali e nel diritto, avrebbero potuto facilmente sfociare nella centralizzazione di tutto il potere e nel soffocamento delle minoranze dissenzienti sotto il peso del numero.

Rattazzi, Nicotera e Crispi avevano offerto altrettanti esempi di questa tendenza della democrazia radicale verso l’autoritarismo, e persino Garibaldi aveva’ preferito essere dittatore e duce durante l’unico suo periodo di governo.

Di Rudinì

Di Rudinì

Tendenze analoghe erano latenti anche nella Destra. Di Rudinì e Sennino ereditarono da Spaventa e Ricasoli la paradossale convinzione che la libertà potesse venir imposta dall’alto; il che portava al principio che i governi avessero il dovere e il diritto di accrescere senza limiti il loro potere e di soffocare ogni voce critica.

La minaccia del socialismo dal 1880 in poi servì solo ad aumentare l’intolleranza e l’autoritarismo di quanti si sentivano minacciati dalla lotta di classe e a rafforzare la loro diffidenza nei confronti degli istituti parlamentari.

L’esecutivo — il re e i ministri — avevano sempre posseduto, in base allo Statuto del 1848, un potere preminente, e neppure Cavour si era dimostrato preoccupato di creare un sistema di freni e contrappesi una volta salito egli stesso al potere.

La separazione fra potere giudiziario e potere esecutivo esisteva appena ed attraverso il ministro della Giustizia il governo deteneva ampi poteri di nomina e di promozione dei membri della magistratura. Vi erano ben pochi arenghi politici al di fuori del parlamento; la cerchia dei lettori di giornali era quanto mai limitata; non esisteva nessuna vera e propria organizzazione di partito che collegasse le zone rurali alla capitale.

Il senato faceva raramente mostra d’indipendenza e cedeva servilmente al primo accenno d’infornata di nuovi senatori. Nella camera un presidente del Consiglio abile era normalmente in grado di costituirsi una maggioranza grazie al sistema di clientele, di cui erano al centro il ministero dell’Interno e quello dei Lavori pubblici.

Da “STORIA D’TALIA 1861 – 1969” di Denis Mack Smith – vol.I

Foto RETE

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