Quello strano incontro che non fu a Teano

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II pittore Pietro Aldi fece del suo meglio. Sulla parete del municipio di Siena lasciò correre colori e pennelli con disinvolta maestrìa in modo da fissare sul muro l’immagine dell’incontro di Teano fra Vittorio Emanuele II e Garibaldi. Il re, in viaggio da Torino verso quel Sud che doveva diventare di sua proprietà, e il Generalissimo che, venendo in senso contrario, marciava verso Nord, ebbero modo di incrociare i rispettivi sguardi e formularsi i reciproci saluti.

Uno spettacolare falso d’autore.

Vittorio Emanuele II, con una stazza abbondantemente sopra i cento chili e il sedere esuberante per ampiezza quanto la grancassa di un tamburo, non era un soggetto facile nemmeno per l’arte, avvezza agli aggiustamenti dei pittori di regime. Come non svilire la grandiosità dell’avvenimento con l’immagine di un sovrano sgraziato, già curvo sulle spalle, goffo in sella, più largo che lungo?

Pietro Aldi se la cavò cercando nella pinacoteca del palazzo, fra i ritratti dei sovrani: trovò il padre di Vittorio, Carlo Alberto, anche lui a cavallo ma più fiero e filiforme, gambe lunghe e ben appoggiate sulle staffe, schiena dritta e secco quanto un chiodo. Sopra un busto così ben fatto, fu sufficiente calare testa, barba e baffi di Vittorio Emanuele. Un’operazione analoga a quella dei moderni fotomontaggi.

Aldi_-_Victor_Emanuel_II_Meeting_Giuseppe_Garibaldi_at_Teano_-_Google_Art_Project

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Anche nei confronti di Garibaldi non mancò un pizzico di garbo. Quella mattina il “primo” dei Mille aveva dei fastidi con l’artrite cervicale. L’avventura è bella ma lascia dei segni sulla pelle e nelle ossa. Quando il collo gli doleva in quel modo, il Generalissimo si proteggeva con strati di sciarpe, si annodava un fazzoletto sul collo e poi copriva il tutto calzando una specie di papalina di lana.

Le sciarpe colorate facevano molto Sud America e confortavano la sua immagine di eroe dei due mondi. La papalina poteva essere una bizzarria tollerata e persino simpatica su un personaggio stravagante e anticonformista come lui. Ma, certo, un foulard come quello delle massaie che andavano al mercato per la spesa del giorno, avrebbe compromesso il mito dell’invincibile. Meglio indugiare sui riccioli biondi lasciati cadere senza riguardo e poca cura come accade per gli eroi bohémien.

Perciò l’autore dell’affresco preferì proporre l’immagine di un Garibaldi esuberante con il cappelletto fra le dita di una mano alzata nell’entusiasmo del saluto sopra la testa nuda. L’inestetico fazzoletto a scacchi, steso fra orecchio e orecchio, fu sostituito con un improbabile mantello turchese che, con abbondanza di pieghettatura, scendeva fino quasi a lambire la coda del cavallo.

Bugiardo, ancorché accreditato dalla compiacente reticenza dei testimoni, fu il resoconto scritto che venne dato dell’episodio. Si disse che accadde a Teano e qualcuno è disposto a credere che avvenne dove adesso è stato sistemato l’autogrill, al bordo dell’autostrada, perché l’ingresso è abbellito da un gigantesco mosaico che ricorda l’episodio. […]

Vittorio Emanuele II

Vittorio Emanuele II

I contemporanei abbondarono in particolari. Raccontarono che questi due eroi dell’Unità d’Italia si scambiarono frasi di affettuosa amicizia, quasi abbracciandosi e, dunque, mettendo i loro cavalli nella condizione di abbracciarsi anche loro.

«Saluto il primo re d’Italia». «E io saluto il mio migliore amico».

Si lasciò credere che i due si fossero messi in marcia, al passo, spalla a spalla, in modo da poter intrattenere qualche brano di amabile conversazione. In fondo, non dovevano far difetto gli argomenti. Dietro, alle prese con analoghe chiacchiere, sorridenti e solidali, i generali inamidati dello Stato Maggiore piemontese e gli sbrindellati colonnelli dell’esercito dei volontari.

Sorrisi? Pacche sulle spalle? Complimenti per le coraggiose imprese di guerra? Che succede a Torino? E com’è questo Sud?

La realtà è diversa, a cominciare dal luogo che, ormai, a giudizio quasi unanime degli storici, sembra fosse Vairano. Pochi chilometri in linea d’aria, se vogliamo, buoni per qualche pretesa di campanile, eppure indicativi della superficialità con cui è stata trattata la storia recente. Fu una scena goffa e impacciata.

La pronipote dell’eroe dei due mondi, Ana Maria de Jesus, figlia di Ricciotti Garibaldi e di Costanza, sostiene che in famiglia la spiegavano così:

«II bisnonno e il re si incontrarono a Vairano. Il bisnonno a Teano non ci è andato proprio, nemmeno a dormire. Aveva passato la notte alla taverna Catena di Vairano, si era alzato presto e, invece di partire, aveva deciso di aspettare Vittorio Emanuele. Quando arrivò, il bisnonno non scese da cavallo e gli disse: “Maestà, vi porto l’Italia”.

G. Garibaldi

G. Garibaldi

Per la verità lo disse in francese perché lui era di Nizza e nel regno sabaudo l’italiano era poco comune. Dunque: “Majesté, je vous remets l’Italie”.  Insieme si diressero verso sud».

Secondo alcuni, Vittorio Emanuele non andò oltre uno striminzito: «Grazie». Dopo qualche centinaio di metri – racconta Alberto Mario – piemontesi e garibaldini che si erano mescolati «si separarono, ciascuna parte respinta al proprio centro di gravità: in una riga le camicie rosse e nell’altra e parallela superbe assise lucenti d’oro, d’argento, di croci e di gran cordoni».

Qualche gruppo di contadini meridionali accennò a un applauso: «Viva Galibardo… Viva… Viva Galibardo» e guardavano verso il re perché ritenevano che il più popolare fosse anche il meglio vestito. […]

Garibaldi chiese al re l’onore di partecipare con i suoi uomini all’assalto delle ultime postazioni borboniche, ma Vittorio Emanuele rifiutò seccamente dicendo che i volontari dovevano essere molto stanchi e bisognosi di riposo. In realtà, voleva una vittoria da esibire a buon mercato, ma tutta sua.

Non si dissero altro.

Il re invitò Garibaldi a colazione e questi rispose, mentendo, che aveva già mangiato e si congedò. La memorialistica, infatti, volle precisare che, quattro chilometri più in là, si fermò davanti alla chiesetta di un villaggio, chiese del pane e lo masticò seduto su uno scalino con gli altri suoi luogotenenti intorno: facce lunghe e zitti perché nessuno aveva il coraggio di parlare. Verso sera il Generalissimo si lasciò andare a un commento sconsolato con Jessie White Mario: «Ci hanno messo alla coda».

Adesso che non servivano più, i volontari erano in liquidazione. E non venne risparmiato loro il segno esteriore del disprezzo.

Si doveva fare una grandiosa parata; il generale Sirtori pregò il generale Della Rocca di far partecipare anche le camicie rosse ma, con una faccia tosta degna di miglior causa, quello rispose che non gli pareva opportuno, in una cerimonia tanto solenne, allineare soldati male in arnese. Straccioni, stanchi per una campagna che aveva strabiliato le diplomazie del mondo e stupito i loro comandi militari. I signori ufficiali – fu la decisione – avrebbero potuto partecipare e sarebbero stati i benvenuti. Però la truppa era meglio lasciarla acquartierata negli accampamenti.

Naturalmente gli ufficiali non andarono alla parata senza i loro uomini.

Da “MALEDETTI SAVOIA” di L. Del Boca

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