“Finché c’è guerra c’è speranza”, titolava un film di qualche anno fa.
Tra il 1914 ed il 1915 gli industriali finanziarono abbondantemente i gruppi che spingevano perché l’Italia entrasse in guerra. Il testo che segue vi aiuta a capire perché.
L’industria italiana e la guerra
Come reagirono le forze economiche italiane all’emergenza rappresentata dalla guerra? La mobilitazione fu straordinaria, con il potenziamento delle industrie esistenti e la nascita di nuovi rami della produzione, in un contesto di enorme crescita dei fatturati e dei profitti.
Uno degli aspetti più significativi della grande guerra fu il ruolo di stimolo che essa assunse nei confronti dell’apparato produttivo industriale. Il fronte, con l’impiego di centinaia di migliaia di uomini da alimentare, vestire e calzare e con il suo quotidiano “consumo” di cannoni, armi, munizioni e mezzi di trasporto, si andò configurando come un immenso mercato: in esso vi era un solo compratore, lo stato, e un numero crescente di fornitori fatto sia da grandi industrie sia di una miriade di piccole e medie manifatture. Nel volume dello storico Giorgio Porisini Il capitalismo italiano nella prima guerra mondiale, La Nuova Italia, Firenze 1975, compaiono alcune informazioni sulle dimensioni quantitative dell’industria bellica e su quelle che erano le sue tendenze di fondo.
Profitti e concentrazioni
I profitti medi dichiarati dalle società anonime, pari al 4 per cento circa alla vigilia del conflitto, balzano nel 1917 all’8 per cento e, nei settori più direttamente impegnati nella produzione bellica, ascendono a misure veramente vertiginose. Gli utili delle industrie siderurgiche salgono dal 6 al 17 per cento, quelli delle industrie automobilistiche passano dall’8 al 31 per cento, quelli dei fabbricanti di pellami e calzature si elevano dal 9 al 31 per cento, quelli dei lanieri crescono dal 5 al 19 per cento. Gli utili dei cotonieri, dei chimici e dell’industria della gomma aumentano rispettivamente dall’1 al 13 per cento, dal 9 al 15 per cento. Così pure mentre il capitale delle società anonime industriali in genere cresce, in lire oro, del 56 per cento, quello delle anonime metalmeccaniche aumenta del 252 per cento.
Il capitale dell’Ilva passa da 30 a 300 milioni, quello della Breda da 14 a 110 milioni, quello della Fiat da 17 a 200 milioni, quello dell’Ansaldo da 30 a 500 milioni […].
Si formano grossi collegamenti industriali, si concentrano enormi nuclei di interessi e di affari. Cartelli e pools assorbono in un unico organismo molte aziende, spesso anche assai notevoli per la rilevanza dei mezzi finanziari raccolti, per il giro di affari amministrato, per la vastità del movimento economico controllato, per la massa di operai impiegata, e traggono la loro potenza, oltre che dal loro capitale, dall’ampiezza dell’indiretto dominio su molte altre società che si opera attraverso lo scambio delle azioni e delle rappresentanze personali.
Contemporaneamente, però, eliminata ogni forma di concorrenza e sospesi gli scioperi, armatori e industriali possono imporre i prezzi desiderati e accumulare enormi fortune. Mentre l’accresciuta circolazione monetaria dilata gli affari e ogni limite di spesa viene rimosso, al loro confuso e disordinato arrembaggio al denaro pubblico non è possibile opporre più alcuna resistenza. Gli industriali approfittano del conflitto per instaurare una maggiore disciplina nel paese, per diminuire il pericolo degli scioperi, per piegare la manodopera maschile, femminile e minorile alle dure condizioni di lavoro, e applicano quella “legislazione di guerra” che lo stato, come s’è visto, ha promulgato nel settore del lavoro.
Il ruolo trainante della guerra
La guerra facilita in questo modo la nascita o il rafforzamento dei grandi monopoli, scatena le più audaci speculazioni, intensifica il processo di concentrazione regionale a vantaggio delle zone sedi delle attività più direttamente connesse alla produzione bellica. […]. La guerra accentua perciò i tratti più tipici del capitalismo industriale italiano, quali l’alto grado di concentrazione, la compenetrazione tra banche e industrie, la dipendenza dalle ordinazioni dello stato e le intese settoriali per la regolamentazione dei mercati […]. Soprattutto la generale compenetrazione tra industria e banca costituisce una pesante ipoteca sul futuro sviluppo dell’economia e della vita nazionale. Il credito diviene base necessaria per la finanza industriale, e l’eccessivo suo allargamento determina una prevalenza troppo accentuata del debito fiduciario sul capitale vero e proprio dell’azienda. L’industria si espone a gravi soggezioni e pericoli ogni qual volta si registrano contrazioni di credito, l’eccesso di concorso diretto della banca nella formazione del capitale azionario delle società anonime ne compromette spesso la sincerità del carattere e ne deforma la funzione.
Fonte: http://www.keynes.scuole.bo.it/sitididattici/farestoria/approfondimenti/
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