STORIA DEL TESORO DELLA GROTTA DI MIRCURO (Seconda parte)

Grotta di Mircuro

Grotta di Mircuro

 

Alcune storie hanno accompagnato l’infanzia di generazioni di orsomarsesi, quando la televisione non occupava il mondo dell’immaginario e gli anziani sapevano rendere dolcissime le serate d’inverno attorno al focolare, con i loro racconti.

Ne cito due: il camminamento segreto e sotterraneo che collegava la grotta di Frassaniddu con quella di Mircuro, luogo degli  accadimenti più mirabolanti, e quella del tesoro di Mircuro.

Quest’ultima credevo fosse solo una leggenda, una delle tante germinate dalla cultura popolare nostrana.

Raccontava di un tesoro nascosto. Per trovarlo era necessario sacrificare un bambino.

Agli inizi degli anni ’30,  però, questa storia turbò la mente dei membri di una famiglia che arrivarono all’infanticidio.

Ecco la ricostruzione che ne venne  fatta in tribunale.

 

L’ho presa dal libro “I DELITTI DELLA POVERA GENTE” di G. Caputo.

 

Devo questo materiale alla cortesia di Pietro Rotondaro e dell’avv. Giuseppe Arieta, ai quali va il mio ringraziamento.

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SECONDA PARTE

Su questa versione dei fatti la inchiesta andò avanti per alcuni giorni, tra interrogatori, confronti e testimonianze; ma al Pretore Giordanelli non parve credibile tale versione dei fatti, pensando che altri dovevano essere i moventi; e siccome — come egli racconta nella sua relazione — era giunta al suo orecchio una leggenda che correva in Verbicaro, per cui portando sul sagrato della Chiesa di S. Mercurio in Comune di Orsomarso il cadavere di un minore, sarebbe uscito fuori un tesoro, pensò che tale leggenda non fosse estranea al truce fatto ed incaricò il Maresciallo dei Carabinieri di svolgere indagini per accertare la sussistenza della leggenda; dopo alcuni giorni il Pretore si recò nelle carceri di Verbicaro per interrogare il Ferruccio e questi, alle insistenze per rivelare la verità, finì per fare questa confessione: che la madre, Spingola Maria, aveva raccontato di avere fatto un sogno per cui depositando il cadavere del Pasquale sul sagrato di S. Mercurio sarebbe uscito un tesoro; in seguito a ciò tutta la famiglia aveva stabilito di uccidere il ragazzo ed aveva incaricato i due, Ferruccio e Vincenzo, della esecuzione; per cui quella notte, i due, usciti con il fratello, lo avevano ucciso; di poi, una volta trasportato il cadavere, cui avevano già reciso la testa, sul sagrato non era uscito, naturalmente, alcun tesoro; per cui sbigottiti e delusi, avevano pensato di simulare l’investimento.

Inutile dire che questa versione, come venne risaputa, produsse una emozione enorme e un sensibile raccapriccio, ma anche alcune perplessità nella pubblica opinione, anche perché risultò dalla indagine dei Carabinieri che una leggenda di tal genere non esisteva né a Verbicaro né a Grisolia, né altrove. Solo in Orsomarso vi era una diceria che per trovare un tesoro nella zona di S. Mercurio bisognava ingerire un quintale di lardo e di grasso.

Tutti i componenti della famiglia Accurso negarono sia il sogno che il complotto e negativi si mantennero sempre, durante tutti gli interrogatori ed i confronti della istruttoria; va notato che dopo la prima confessione il Ferruccio venne interrogato altre tre o quattro volte e, messo a confronto con i vari imputati, modificò spesso il proprio racconto, facendo comparire la madre come esecutrice materiale del fatto, ed il padre —che notoriamente era vecchio e malato — come portatore della salma del figlio alla chiesa di S. Mercurio; testimonianze sul fatto non vi erano, e furono soltanto raccolti alcuni brani di discorsi tra il Ferruccio ed alcuni degli altri imputati nel carcere di Verbicaro. Su tali elementi tutta la famiglia venne rinviata a giudizio per rispondere del reato di cui all’art. 576 n. 2 C. p. « per avere, per motivi futili ed abbietti cagionato la morte del proprio fratello e figlio Accurso Pasquale, dopo averne premeditato il delitto e mediante ripetute ferite di coltello, con il quale, agendo in modo crudele, riuscirono a staccare la testa dal busto ».

Il processo si è svolto davanti alla Corte di Assise di Cosenza nell’ottobre del 1934 ed è durato dieci giorni; la sentenza venne emessa il 27 ottobre dopo un accanito dibattito. La Corte era presieduta dal comm. Giuseppe Nerazio Volpe, Consigliere a latere il Dott, Pasquale Reale; P. M. il Sostituto Procuratorie Generale Comm. Vittorio Fanzini, Cancelliere Rippa Giuseppe.

La difesa era composta dall’avv. Filippo Martire per Ferruccio Eduardo, dell’avv. Luigi Filosa per il Vincenzo Accurso, dagli avv. Roberto Fagiani e Giovanni Caputo per tutta la famiglia Àccurso.

Il P. G. concluse la sua requisitoria, chiedendo la condanna a morte dei genitori Accurso Vito e Spingola Maria; all’ergastolo per Accurso Vincenzo e per le sorelle Accurso Giuseppa e Doralba, ad anni ventiquattro per Ferruccio Eduardo, minore degli anni 18.

La Corte nella sua sentenza accolse le richiesta del P. G., tranne per le due  sorelle che assolse per insufficienza di prove.

Questa sentenza, impugnata dalle parti, fu confermata in Cassazione, ma i due condannati  a morte vennero graziati e la pena commutata nell’ergastolo.

Il povero Accurso Vito morì in carcere; la donna è tornata recentemente in libertà per grazia. Questa vicenda ha suscitato enorme scalpore a quel tempo, ed anche oggi se ne parla in Verbicaro e nei paesi vicini. Pure molte perplessità e molti dubbi sono rimasti; i vecchi del luogo, che conoscevano bene uomini e cose, se interrogati sui tragici fatti, anche oggi, dopo circa quarant’anni, scuotono il capo in segno di dubbio.

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