Matera, città rupestre, città dei Sassi, città troglodita, città della vergogna nazionale, città laboratorio, città patrimonio Unesco, città capitale europea della cultura, città del pane, città della pace, città invisibile, città in grotta, città di preghiera che scava. Le anime, la pietra. Matera/ Meteora, che guarda verso il cielo, sospesa nell’aria, come i ventiquattro monasteri della Tessaglia, costruiti con enormi sacrifici in cima a falesie di arenaria, nelle solitudini, nel silenzio del raccoglimento. Lungo le pareti a strapiombo e i fianchi scoscesi delle Gravine, non è raro avvertire la medesima tensione umana verso l’infinito. E ci prende un senso di veneranda vertigine al pensiero dell’esperienza spirituale di chi non ha avuto paura di calarsi nella grotta interiore. Gli anfratti, le grotte, le pareti scoscese e scabre accentuano la nostra inaccessibilità a quello scavo dello spirito che promanano: l’immaginazione è sopraffatta dalla sovrapposizione drammatica delle visioni del presente in Siria. Non penso ad altro che all’inconciliabilità concettuale tra guerra e religione. In nome di Dio si spoglia la terra di uomini, di città, di memorie. Pulvis sumus, come ora, coperti dalla polvere dorata del deserto siriano.
Si muovevano, e in tanti, anche da lì, come l’apostolo Paolo lungo la via di Damasco, monaci e anacoreti, spinti da istanze ascetiche e mistiche o chiamati a svolgere opera di evangelizzazione e di riassetto del territorio dei Romei lungo le rotte dell’impero di Bisanzio, sorretti dall’esempio di vita dei venerati monaci siriani, che leggiamo in Teodoreto di Ciro (Storia dei monaci della Siria, Milano, 1996). Da lì, suppongo, provenivano i monaci che portarono nel villaggio che sarebbe diventato Santeramo in Colle, il culto di Efrem, il veneratissimo santo della Siria, e il culto dei martiri siriani Sergio e, probabilmente, Bacco nella Gravina di Massafra. Nel silenzio delle cavità pare sentire il loro respiro, il canto sacro del vangelo, il fruscìo della melotì e della sisyra, il saio di pelle di montone e il corto mantello di cuoio, e le movenze di corpi annullati tra le pieghe delle vesti.
Erano in cerca di luoghi solitari, da deserto asiatico, dove la rarefazione di strade agevoli e di presenze umane avrebbe loro permesso di seguire l’esempio di vita dei Padri del Deserto. Gli uomini dei villaggi e delle comunità rupestri tra Puglia e Basilicata vivevano già dalla preistoria non diversamente da loro, avendo imparato sin da tempi immemorabili a far tesoro dell’acqua e a fare del grembo della terra una casa. Possedere terra e acqua (habitare) e condividerle ospitalmente in cambio del privilegio della presenza così intima e non “distante” di Dio, della Madonna, dei Santi e dei loro umili ministri. Non mancavano le comunità religiose occidentali benedettine, che si mossero dai ducati longobardi o al seguito dei Franchi e dei Sassoni. L’istanza di protezione e consolazione delle comunità insediate in questo habitat ha trovato soddisfacimento nelle oltre centocinquanta chiese rupestri disseminate nel Materano (La Scaletta, Le chiese rupestri di Matera, Roma 1966; F. Dell’Aquila- A. Messina, Le chiese rupestri di Puglia e Basilicata, Bari, 1998).
Senza sopravvalutare il fenomeno monastico bizantino a Matera, per quanto molto rilevante, la caratterizzazione cultuale distingue le chiese in cinque tipi: chiese lavriotiche, funzionali a laure e asceteri, chiese cenobitiche, a disposizione di una comunità monastica, santuari, per l’intera comunità, chiese cappelle, con funzione privata, chiese dei casali, per i villaggi sparsi, la più diffusa tra le tipologie. In tali sedi teologia e catechesi, liturgia greca e/o latina sono praticate e comunicate dall’architettura, dall’arte scolpita e dalle pitture rupestri, periodicamente rinnovate, abrase o palinseste. Le fonti tacciono sui loro autori, se appartenessero a monaci o a laici le mani che hanno scavato e affrescato è un tema dibattutissimo e le opinioni divergenti moltiplicano i dubbi più che le certezze (A. Rizzi, Scritti sull’arte in Basilicata (1966-1976), Matera, 2007). Di certo le icone lignee circolavano più facilmente, mentre dai dignitari imperiali ci si poteva aspettare qualche moneta e le oreficerie, come il prezioso enkolpion (X sec.), una croce pendente di oro e argento niellato, che raffigura nel medaglione centrale il busto di S. Basilio di Cesarea (Cappadocia), al Museo Diocesano di Matera.
Ripercorrere i tempi e tutte le circostanze del fenomeno monastico-bizantino, “lievito orientale” che ha incontestabilmente alimentato la civiltà rupestre, è compito arduo. Fonti storiche, agiografiche e documentarie mancano o sono evanescenti. Negli ultimi decenni, la ricostruzione scientifica dal punto di vista cronologico, storico-antropologico, architettonico e artistico ha tracciato nuovi indirizzi e prospettive di ricerca (A. Guillou, C. D. Fonseca, H. Houben, M. Falla Castelfranchi). La Matera della “preghiera” tra tardo antico e medioevo, nel continuum insediativo e con la sovrapposizione del gesto architettonico,è una realtà più intuibile che di fatto percepibile, tuttavia poche località come questa possono significare una presenza religiosa tanto preziosa, sia nella fase speleotico-esicastica, sia in quella semi-subdivale cenobitica, che ha preferito scavare sempre, ove possibile, anziché erigere. L’influenza bizantina è pervasiva nei contesti con datazione più alta e resta nelle tradizioni liturgiche e nei cicli pittorici e negli stilemi decorativi, per quanto l’impiego della categoria di “basiliani” sia il generico retaggio di una contrapposizione alla coeva presenza dei benedettini e convenzionalmente indichi le comunità monastiche italo-greche in Italia meridionale.
“Le grotte stanno intorno a guisa di teatro”, scrive l’agostiniano Angelo Rocca sulla cinquecentesca pianta di Matera (Biblioteca Angelica, Roma), ma, all’epoca, forse non poteva immaginare un “teatro” del sacro e dello spirito. E il tema della grotta, naturale e non, era molto caro ai Padri della Chiesa. A questo proposito, una significativa analogia con il mondo orientale è rappresentata dal culto delle sacre grotte in area siro-palestinese rintracciabile pure nelle grotte esicastiche dell’Italia meridionale: il rapporto con la luce è facilitato dagli ingressi ove possibile posti a oriente, mentre la funzione mistica della luce solare che entra nell’antro è quella di sconfiggere le tenebre, mettere in fuga i demoni e illuminare l’anima con il dono dell’esychìa (serenità).
Non si possono escludere migrazioni di monaci greco-orientali nel periodo fra la prima e la seconda conquista bizantina, benché in un territorio così marcato dai luoghi del sacro si rende ancor meno districabile l’intreccio dei rapporti tra le componenti etniche della popolazione, divisa tra indigeni, longobardi e “bizantini”. I monaci greco-orientali lasciano Costantinopoli, la Siria, la Palestina, l’Egitto, la Cappadocia, l’Armenia e i territori romei nel VII secolo per la lunga e sanguinosa invasione persiana guidata da Cosroe II (602-628) che si abbatte sul confine siriano, poi contenuta vittoriosamente dall’imperatore Eraclio. Per tradizione era attribuita a lui la statua bronzea colossale di Barletta, che, anche se non ritrae Eraclio, impone simbolicamente attraverso il potere delle immagini l’appartenenza e il controllo dell’Impero romano di Costantinopoli sui territori della nostra regione, almeno fino all’ XI secolo, molto più tardi in Terra d’Otranto e in Calabria. L’”Eraclio” fu traslato da Ravenna e collocato in Puglia, probabilmente in età sveva, anche con l’intento ideologico di rivendicare la stessa autonomia tenuta dall’impero d’Oriente nei confronti della chiesa di Roma.
Il rigore teologico bizantino, dopo i quattro concili fondamentali della chiesa delle origini (Nicea, Efeso, Costantinopoli e Calcedonia) induce Eraclio a enunciare l’Ekphysis tis pisteos sull’ortodossia diofisita calcedoniana, senza rifiutare il dialogo con le chiese orientali monofisite, ossia la Siria, l’Armenia e i copti d’Egitto. Anche in quella circostanza non si possono escludere tout court alcune migrazioni verso le regioni d’Italia, poco prima o contestualmente alla riorganizzazione costantinopolitana per themata, circoscrizioni di carattere amministrativo-difensivo : il thema della Langobardìa minor, corrispondente alla Puglia, con capitale prima Benevento e poi Bari, quello della Lucanìa, con sede amministrativo-militare a Toursikon (Tursi) e della Calabria, guidata da Reggio.
Anche il periodo, che coincide con la conquista araba di Damasco del 635, può rappresentare la causa dell’intensificarsi di movimenti di genti, forse anche laiche, durante il secolo successivo, con l’assedio arabo di Costantinopoli e la politica religiosa iconoclasta sostenuti nel 717 dall’imperatore d’oriente Leone III Isaurico. Anche i monaci iconodùli orientali esprimono la loro spiritualità nell’isolamento, disseminati e al tempo stesso condizionati dai conflitti tra longobardi e bizantini, poi tra bizantini e arabi, e ancora tra bizantini, arabi e normanni. I bizantini erano soliti assorbire nei loro ranghi amministrativo-militari gli indigeni e le componenti etniche diverse: nella seconda metà del IX secolo, i longobardi Radelgisio e Godeno, rispettivamente padre e figlio, sono insigniti dal basileus del titolo di protospatarius di Matera. La città annovera aree cimiteriali longobarde, documentate da scavo (Piazza S. Francesco, Cattedrale, S. Lucia e Agata alle Malve) chiese (S. Martino, S.Vito, S. Lorenzo e S. Cataldo dei Lombardi nel Barisano) e nel Materano la Cripta del peccato originale con il ciclo di affreschi legati alla scuola beneventana, un santuario extraurbano con cenobio. Tutti segni di convivenza pacifica.
Se il modello di vita anacoretica si concilia con l’habitat, le strutture e il territorio materano, è apparso molto singolare ad alcuni studiosi che Matera o un suo monaco non siano ricordati nelle Vite dei santi e degli anacoreti italo-greci. In verità un santo c’è; non è greco, ma ugualmente monaco eremita, benedettino, il materano Giovanni de Scalzonibus (Scalcione, 1070-1139), che più tardi feconderà e rinnoverà, con un rigore più severo e la lezione dei padri Basilio e Benedetto, la Congregazione degli eremiti pulsanesi scalzi dell’Abbazia di Pulsano nel Foggiano.
Appare meglio documentata, a tutti i livelli, la situazione del monachesimo italo-greco del IX e il X secolo, in sincronia con la seconda colonizzazione greca dell’Italia meridionale. A seguito delle invasioni arabe della Sicilia, si registra un movimento migratorio di monaci verso la Calabria e la Lucania e i Bíoi, le vite, come quella di S. Nilo di Rossano, sono preziosa testimonianza dei modelli di vita monastica e delle maglie relazionali con il contesto sociale. Questi monaci “dissodatori” alternavano al bìos theoretikòs, una vita contemplativa, il bìos praktikòs: di certo l’autorità statale bizantina fece più attraverso di loro in termini di funzione civilizzatrice, spirituale, morale, culturale, agricola e medica che con le eparchìe e i catapanati. I Normanni lo capirono bene, tant’è che non solo non latinizzarono le fondazioni monastiche bizantine, ma le sostennero e le promossero. Sorte contraria per le cinque sedi episcopali greche, tra cui Acerenza e Tricarico, sul cui soglio furono posti vescovi latini.
Un’ultima visione “georgica”, di ascendenza antica, che collega il nostro al mondo greco e orientale: alla vista delle nostre pecchiare, gli apiari in pietra dove si alloggiavano e custodivano le arnie, spesso di pertinenza di chiese di casali, come quella di S. Falcione, mi vengono in mente le annotazioni di Al Idrisi (L’Italia descritta nel “Libro del re Ruggiero” , M. Amari, G. Schiaparelli, 1883) sulla Calabria, “fiume di miele”, a cui associo i toponimi con radice mel, come Mellitto, a due passi da Matera, e soprattutto i racconti agiografici delle lotte tra gli anacoreti e gli orsi, per la difesa del miele, base alimentare di molti eremiti per la facilità di raccolta e conservazione, rimedio terapeutico prezioso, insieme al valore ben più alto e ai molteplici impieghi sacri e devozionali della cera.
Tanto più ora, mentre l’Isis giustizia la storia, questo scavo nella memoria del nostro passato comune mediterraneo si rivela necessario.
La guerra dei bambini, l’hanno chiamata. Portavoce muti di una guerra oscena. Mi ricorda Mattatoio n.5 o la crociata dei bambini, il romanzo autobiografico di Kurt Vonnegut, quando i piccoli profughi, incolonnati mezzi spogli a piedi nell’inverno tedesco, assistono al bombardamento di Dresda. Restano scioccati a vita dall’effimera precarietà della vita. Nella controversa “gara” di solidarietà europea, anche alla Basilicata è stato “assegnato” un gruppo di sessanta profughi dalla Siria, ora in aumento, a cui, mi auguro, prometteremo un futuro, non un transito. Non ha importanza il numero, quando si tratta di uomini. Sono decisi a sopravvivere. In Siria si paga con la vita il grido di hurriya, libertà, si cerca la salvezza con la fuga in un altrove inospitale e gravido di sospetti. I martiri di ogni fede non tollerata si assomigliano tutti, specie quando il potere politico e economico si fanno interpreti assoluti e intransigenti per alimentare odi e fanatismi.
Ridurre al silenzio gli uomini non basta, sopravvivono le pietre a raccontare le loro memorie, allora è bene eliminare anche quelle e azzerare il passato: si restituisca un deserto al deserto. L’Isis giustizia la storia, appunto. Il mosaico etnoculturale e geopolitico millenario della Siria, intreccio di materia e spirito tra il Mediterraneo, la Persia e l’Oriente estremo, lungo le piste delle città carovaniere, oggetto di appetiti da parte dei grandi imperi antichi e moderni, rischia di scomporsi sotto gli occhi commossi di un Occidente ipocrita. Il braccio delle ruspe si abbatte a disintegrare aree archeologiche, chiese e monasteri del V secolo, tra i più antichi al mondo. Rischia Palmira, caduta nelle mani dei miliziani del califfo Abu Bakr al Baghdadi pochi mesi fa, la stessa condanna al massacro del suo difensore, l’archeologo Khaled Asaad. La città, “miracolo” sincretistico della regina Zenobia, è divenuta oggi simbolo della furia iconoclasta di un islamismo che ha cambiato i suoi connotati originari di pluralismo e tolleranza.
E torno alla storia: il primo emiro di Bari, al-Khal Fun rilasciò un diploma destinato a diventare un punto di riferimento in tutti i secoli della conquista musulmana: “Nel nome di Dio, clemente e misericordioso. Questa è sicurtà concessa dal servo di Dio, Omar, Principe dei Credenti, agli abitanti di Aclia. A tutti senza distinzioni, o malati o sani, egli garantisce la sicurtà per loro stessi, per i loro beni, per le loro chiese, per i loro crocefissi e per tutto ciò che riguarda il loro culto… Non saranno maltrattati per causa della loro fede, né alcuno fra essi sarà danneggiato.”( G. Musca, L’Emirato di Bari. 847-871, Bari, Dedalo, 1967, 1992).
Fonte: http://www.famedisud.it/matera-citta-di-preghiera-preghiera-che-scava/
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