«… questo paese, dove non sono nato, ho creduto per molto tempo che fosse tutto il mondo”

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«… questo paese, dove non sono nato, ho creduto per molto tempo che fosse tutto il mondo. Adesso che il mondo l’ho visto davvero e so che è fatto di tanti piccoli paesi, non so se da ragazzo mi sbagliavo poi molto. Uno gira per mare e per terra, come i giovanotti dei miei tempi andavano sulle feste dei paesi intorno, e ballavano, bevevano, si picchiavano, portavano a casa la bandiera e i pugni rotti… Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti».

Il brano de “La luna e i falò”, l’ultimo romanzo di Cesare Pavese, pubblicato nell’aprile del 1950 (lo scrittore sarebbe morto suicida nel settembre di quell’anno) è uno dei più citati da quanti affermano la bellezza e la necessità di avere, come diceva De Martino, una «patria culturale» di riferimeno e un «villaggio nella memoria» per non smarrirsi nel mondo.

Non ho mai capito, tuttavia, perché questo brano viene lasciato sospeso e quasi mai è citato nella sua interezza, con il seguito che lascia poco scampo a chi immagina che il paese sia un paradiso perduto e un luogo pacificato. Il personaggio di Anguilla nel quale Pavese sembra proiettare se stesso così, infatti. continua:
«Ma non è facile starci tranquillo. Da un anno che lo tengo d’occhio e quando posso ci scappo da Genova, mi sfugge di mano. Queste cose si capiscono col tempo e l’esperienza. Possibile che a quarant’anni, e con tutto il mondo che ho visto, non sappia cos’è il mio paese?».

Non è facile starci tranquillo. Il paese fugge e noi siamo fuggiti. E non si torna mai al paese dell’infanzia e a quello lasciato. Bisogna avere vissuto la sensazione di essere «spaesato» nel proprio paese ed esiliato in patria. Il paese che ci pare e che dispare è un luogo, un microcosmo, che contiene tutte le bellezze e la fatiche del mondo.

Di Vito Teti

 

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