Se perdiamo le api perdiamo molto del nostro ambiente

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Che fine hanno fatto le api? La grande paura, qualche anno fa, era come proteggere le api dalla Sindrome da Spopolamento degli Alveari: negli Usa, nel solo 2007, questa misteriosa epidemia si è portata via il 40% delle colonie, scatenando il panico. In Europa la stima era di circa il 20% di arnie lasciate vuote ogni anno, con punte regionali del 53%. Ma a poco a poco il destino di questi laboriosi insetti è sparito dalle pagine dei giornali: assuefazione o segno di un miglioramento? Lo abbiamo chiesto a Francesco Panella, presidente dell’Unione Nazionale Associazioni Apicoltori Italiani (Unaapi) e consigliere dell’associazione ambientalista Bee Generation.

Non si parla più della moria delle api. Il problema è stato superato?

Più che altro non fa più molto notizia. È anche vero che ci siamo lasciati alle spalle – si spera – il picco del disastro, collocabile tra il 2005 e il 2008. All’epoca i semi di girasole e di mais venivano “conciati”, ovvero irrorati con i neonicotinoidi, insetticidi potentissimi. Per dare l’idea, basta pensare che un grammo di Imidiacoprid, uno dei più diffusi, ha un’efficacia paragonabile a quella di 7 kg di DDT. A causa delle concentrazioni minime, queste sostanze sono innocue per l’uomo. Se si guarda solo alla salute umana a breve termine, si tratta in effetti di un buon compromesso, ma al prezzo del crollo della popolazione delle api, per non parlare della contaminazione delle acque. Quando prima l’Italia e poi l’Europa, con la moratoria sui neonicotinoidi del 2013, hanno deciso di correre ai ripari, il numero di alveari vuoti è decisamente diminuito.

Quindi si può dire che la situazione è più tranquilla?

Al momento lo è, almeno in Europa, ma potrebbe trattarsi solo di un periodo di quiete. I neonicotinoidi vengono ancora usati, anche se sono vietati prima della fioritura, e si stanno affacciando sul mercato insetticidi sistemici di nuova generazione. Di recente l’Autorità Europea per la Sicurezza Alimentare ha predisposto delle nuove linee guida per l’analisi del rischio delle sostanze usate in agricoltura. Si tratta di una serie di test molto stringenti, che servono a identificare eventuali effetti collaterali. Se questi controlli dovessero diventare di routine, saremmo abbastanza sicuri di non ritrovarci, in futuro, in una situazione come quella del 2005. Ma per ora il rischio che arrivi una nuova “sostanza killer” esiste. C’è poi la grande minaccia del cambiamento climatico che, come si può vedere, “sballa” completamente il calendario della fioritura. Non a caso il prezzo del miele sta aumentando più o meno in tutto il mondo.

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Quali sarebbero i rischi di un’estinzione di massa?

Una ricerca dell’Onu di qualche anno fa stimava la perdita di circa il 90% delle coltivazioni alimentari in caso di scomparsa delle api. Calcolava anche il danno economico, spaventoso. Per quanto efficace, si tratta di un approccio a senso unico: le conseguenze non si limiterebbero affatto ai supermercati vuoti. Basta pensare agli Appennini, che stanno in piedi, letteralmente, anche grazie alle potenti radici dei castagni: niente api significa niente castagni e quindi frane continue. E non solo. Molti insetti che condividono lo stesso destino delle api, come le lucciole e le coccinelle, limitano la popolazione degli acari, che altrimenti distruggerebbero tutti i germogli. Alla lunga entrerebbe in crisi tutto l’ecosistema, con conseguenze degne di un film di fantascienza.

Con le coltivazioni biologiche, però, sarebbe più difficile sfamare la popolazione in crescita…

In realtà è un falso problema: il fatto è che nei costi dell’agricoltura intensiva non viene mai conteggiato il danno ambientale, che viene invece scaricato sulla collettività. I dati della Fao dicono che il grande incremento produttivo ottenuto grazie ai fitofarmaci e alle altre innovazioni tecnologiche dagli anni ’50 in poi, si è arrestato attorno al 2000. Quando si spruzzano sostanze chimiche su un campo succede un po’ quello che avviene con gli antibiotici: sopravvivono solo i parassiti più forti e per liberarsene, la volta dopo, bisogna incrementare le dosi. Nel frattempo gli insetti impollinatori vengono spazzati via e la produttività, al posto di aumentare, cala. Con questo non voglio dire che l’attuale visione dell’agricoltura sia da sostituire con un’utopia da paradiso bucolico: uomo e natura saranno sempre in contrapposizione e le innovazioni sono bene accette. Ma bisogna cercare comunque un equilibrio.

Quali sono secondo voi le misure da prendere?

A livello istituzionale, la nostra proposta è quella di usare le api come indicatori ecologici. Ogni insetto ha un raggio di raccolta di tre km e assimila tutte le sostanze, buone e cattive. Se la popolazione crolla è un po’ come quando muore il canarino di una miniera: devi pensare a un modo per salvarti, e anche abbastanza velocemente. Nel nostro caso, bisogna scoprire ciò che non va ed eliminarlo subito. Quanto al singolo cittadino, può contribuire facendo la spesa: prediligendo i prodotti biologici, controllando l’origine del miele e, anche per il proprio giardino, evitando l’uso di prodotti chimici. Anche la cura del verde urbano è molto importante: non ha molto senso vietare i pesticidi nei campi se poi li si sparge nei cortili delle scuole.

Rossana Caviglioli

Fonte:  http://wisesociety.it/incontri/francesco-panella-proteggere-le-api-per-salvare-lambiente-2/

Foto RETE

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