L’emigrante, se non lui certo suo figlio, ha dovuto adattarsi a un nuovo modo di vivere

Gruppo di orsomarsesi in Corsica

 

Nella società moderna industriale, la famiglia allargata – con nonni, zii, nipoti, etc. – si riduce alla famiglia nucleare, cioè alla coppia e ai figli, che, a sua volta, si riduce alla sola coppia, poiché i figli iniziano a lavorare a diciotto anni e vanno via di casa. In seguito, la coppia non mette più al mondo figli, perché sono una grande responsabilità, per non dire una grande spesa. Inoltre, i vecchi non hanno più bisogno di essere mantenuti dai figli, perché hanno la loro pensione. Successivamente la coppia scoppia: tutte e due lavorano, sono indipendenti, sanno che c’è il 50% di chance che si separeranno e, dunque, si sposano con la separazione dei beni. Discutevo con una giovane donna: Quest’uomo lo porti a letto ma i soldi sono troppo intimi per condividerli?!

Qui finisce la Famiglia, la famiglia che per l’emigrante era Casa. Finisce anche l’epoca del “Padre-padrone”, che esigeva rispetto e obbedienza. Irriconoscibile è la donna indipendente, che lavora e guadagna – non più sottomessa a suo marito. Mi diceva un uomo, un “vecchio di mezza età”: Sono diventato il somaro della famiglia, sono buono solo per portare soldi a casa. Persino la casa cambia definizione: non è più casa, è un “investimento”. Molti, dopo aver comprato una grande bella casa, la tenevano come un museo – per gli ospiti – mentre continuavano a vivere in cantina (basement, “bassamento”, “tavernetta” in italiano). Piano piano genitori e figli avevano sempre più difficoltà a comunicare a causa di mancanza di una lingua comune. Anche il senso del tempo cambia: quando fai un appuntamento ti aspettano solo per pochi minuti se non arrivi, poi, vanno via. Il contatto è finito: hai perso credibilità, non sei un uomo maturo, non capisci che “il tempo è denaro”. Cambia pure lo spazio sociale: la distanza che si frappone tra gli interlocutori aumenta e non si fanno visite se non concordate prima per telefono.

Naturalmente tutto il senso del Valore si trasforma. In America di tanto in tanto si sente la domanda How much is he worth? (Quanto vale quell’uomo?). È sempre una domanda economica, vuole sapere quanti soldi ha. Tutte le dinamiche politiche, etiche, sociali, tutte le associazioni e formazione di gruppi di appartenenza subiscono una metamorfosi. Non sono più basate sulla parentela, famiglia, legami di sangue o amicizia ma su interessi economici, dunque, sul merito, sulla capacità della persona. Il lavoro viene affidato a colui che ha le migliori capacità per svolgerlo, a chi rende di più, non all’amico del nipote della zia del vicino di casa al quale devi un favore. L’emigrante, se non lui certo suo figlio, ha dovuto adattarsi a questo nuovo modo di vivere, che implica l’estinzione dell’Uomo Approssimativo Italiano, l’eterno adolescente che sfugge alle responsabilità, che non prende mai posizione, per il quale nulla è bianco o nero, vero o falso, giusto o ingiusto, ma vive nell’ambiguità, e, dunque, nell’impotenza e nella lagna.

L’Homo Faber, l’uomo moderno tecnologizzato, appartiene a una nuova stirpe, una nuova specie. Gli emigranti non erano preparati a tutto questo. Il peso era troppo e lo stress visibilmente portava molti al di là dei loro limiti. Sotto e dietro la prosperità economica c’era un grande malessere. Coloro che conoscevano bene la comunità constatavano l’enorme aumento della depressione fra le donne, l’alcolismo tra gli uomini e l’uso di droghe fra i giovani. Alcuni medici avevano notato l’aumento di casi di malattie psicosomatiche. Contemporaneamente, si notavano le grandi lacune dei servizi offerti dallo stato canadese. Quando un emigrante andava all’ospedale non c’erano interpreti. C’erano a Toronto soltanto due psichiatri che parlavano l’italiano, un solo psicologo, soltanto due o tre assistenti sociali e nessuno psicoterapeuta. C’è da dire che gli emigranti pagavano le tasse come tutti gli altri e avrebbero dovuto avere, dunque, uguali diritti.

Ad un certo punto lasciai l’insegnamento in università per andare a lavorare presso un organizzazione statale d’eccellenza a livello internazionale, l’Addiction Research Foundation, che offriva servizi a persone con dipendenze da sostanze chimiche. Il mio compito era di relazionarmi con vari centri, ospedali e cliniche, per esaminare la loro “clientela” – in particolare quella di origine italiana, che aveva problemi con l’alcool e le droghe – al fine di progettare programmi e corsi rivolti alla formazione dello staff e fare consulenze e sedute di psicoterapia direttamente con gli utenti e le loro famiglie.

1971 – Toronto – Saverio M. Pagliuso e un suo compagno di lavoro costruiscono un muro ciclopico

In quei tempi c’erano a Toronto tre importanti organizzazioni che provvedevano a offrire vari servizi alla comunità italiana:

  • COSTI – che si interessava principalmente dell’insegnamento della lingua inglese e di tutte le varie problematiche e preparazioni che concernono il lavoro;
  • Italian Immigrant Aid Society (IIAS) – che aiutava la comunità nelle relazioni con burocrazia di stato e offriva assistenza psicologica a individui e supporto terapeutico alle famiglie;
  • National Congress of Italian Canadians (NCIC), il cui compito era di tutelare la comunità dal punto di vista politico.

Io mi coinvolsi con tutte e tre le organizzazioni, realizzando insieme innumerevoli progetti di ricerca, continui programmi radiofonici e televisivi, articoli su giornali, conferenze, seminari, per offrire informazione e supporto alla comunità italiana. Durante la mia carica di vicepresidente dell’IIAS mi resi conto che avremmo potuto dispensare un servizio più completo unendo COSTI e IIAS. Il risultato fu la nascita del più grande centro di servizi sociali del Canada, al di fuori di quelli statali. In quel periodo non mancarono, ovviamente, gli incontri e gli scontri politici.

Voglio raccontarne uno perché presenta le caratteristiche di un’esperienza parallela, direi paradigmatica, in riferimento ad una tematica che attualmente coinvolge in Italia la figura dei consulenti filosofici, dei counselors, degli psicologi e degli psicoterapeuti. L’episodio a cui farò cenno concerne ciò che potremmo definire in italiano “la proposta” dell’ordine degli psicologi al governo dell’Ontario. Erano i primi anni Ottanta e, poiché c’era una condizione poco chiara in merito ad alcuni aspetti delle professioni di aiuto, relativamente alle varie forme di psicoterapia e consulenza, l’ordine degli psicologi aveva deciso di mettere ordine nel caos.  All’epoca io ero nell’esecutivo del National Congress of Italian Canadians e, al suo interno, ero anche capo del comitato “sanità e servizi sociali”. Come molti cittadini ero preoccupato per lo strapotere politico che il governo stava contemplando di dare all’ordine degli psicologi. In particolare, ero preoccupato perché i pochi servizi di consulenza e terapia offerti alla comunità italiana erano gestiti da persone che, nonostante fossero affidabili, scrupolose e con grande esperienza, spesso non erano in possesso dei titoli richiesti ufficialmente, offrendo l’occasione all’ordine di sospendere l’erogazione di servizi che si erano rivelati altamente utili e indispensabili all’intera comunità.

Ci fu una guerra. La stampa, particolarmente il Toronto Star, il più grande giornale di Toronto, prese chiara e netta posizione contro l’ordine degli psicologi, a favore delle nostre argomentazioni. Contemporaneamente parlai con i capi delle comunità di altre nazionalità ed etnie, i quali nutrivano le stesse preoccupazioni in merito al pericolo di trasformare naturali bisogni di cittadini provenienti da altre culture in forme di disagio al limite del patologico. Successivamente, mi incontrai personalmente con il Ministro della Sanità per dimostrare, con coerente evidenza, le dannose conseguenze dell’orientamento intrapreso dagli psicologi. Il risultato fu una vittoria clamorosa (li abbiamo distrutti): per un’intera generazione l’ordine degli psicologi rimase nei propri ranghi, sottomesso e in silenzio, senza interferire più nelle normali pratiche di vita.

Per tornare all’analisi del fenomeno migratorio, oggi gran parte degli emigranti del dopoguerra sono morti. Anche quella strana lingua, l’italiese, è quasi morta. I figli nati in Canada parlano quasi esclusivamente l’inglese e hanno perso – semmai lo hanno avuto – il legame con l’Italia. Quello che resta appartiene più al mito che alla realtà. Ognuno fa la propria ricerca, il proprio viaggio verso Casa, ma gli umani, Umani troppo umani, non raggiungeranno mai il loro scopo. Si potrà raggiungere Casa soltanto quando la Condizione Umana sarà superata. (Fine)

 

Saverio M. Pagliuso, Ph.D.

Filosofo Maieutico

Psicoterapeuta

Consulente Filosofico

 

www.saverius.org

[email protected]

 

 

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