Non è affatto detto che sia una cosa facile. Chi lo dice forse non sa bene di che cosa parla, oppure sta parlando di altro.
Resistere è difficile soprattutto perché è difficile guardare fino in fondo in volto ciò a cui si sta resistendo. Siamo così circondati da tanti inviti a distogliere lo sguardo, ad occuparsi di altro, magari anche di sé ma di quel sé che sa solo godere un po’ inebetito; siamo così assediati dall’invito a cogliere solamente il lato buono, quello che da sempre è destinato ai vincitori; siamo così affascinati da tutto ciò che ci è difficile convincerci che per resistere occorre stare male. Perché non si può resistere se non si sta male, perché la resistenza deve prevedere una condivisione del dolore altrui; almeno in parte, almeno in una nostra cellula. Altrimenti è un gioco retorico, altrimenti è meglio lasciar perdere.
Partire dal dolore significa però che a stare male si impara, perlomeno si impara a cogliere nel dolore la possibilità di un suo superamento. E vedere il male, sprofondare nei suoi gorghi senza restarne affascinati, come già intuì Baudelaire, significa imparare a odiare. Perché resistere senza odio è impossibile, perché anche l’amore oggi è qualcosa di strappato all’odio. Perché chi non odia gli stupri etnici, le bombe atomiche, i bombardamenti sui villaggi inermi, la violenza sui bambini non è capace di resistere a queste espropriazioni.
E chi non vede non odia, non può odiare. Togliersi la benda dagli occhi, anche quella che sembra più gradevole, è il primo gesto di resistenza.
Come il Filosofo nell’antica caverna, vedere che le ombre sono illusione e che lo sfruttamento, il genocidio, l’espropriazione sono verità significa affrettare i tempi nei quali la verità vera possa giungere: quella che narra di una terra senza il male, di un bambino che gioca sicuro e felice sulla tana dell’aspide, magari facendovi dondolare sopra la figurina del calciatore preferito
Da “Educare a resistere”, a cura di Raffaele Mantegazza, Editrice Berti
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