SUD – Che fare?

 

[…] Si può parlare ancora di “questione meridionale”? Non nei termini in cui se n’è parlato in passato (la crisi ha modificato anche il paesaggio sociale e, in parte, l’economia del Nord), ma, in linea generale, certamente sì. Intanto, perché la forbice tra Nord e Sud non si è ridotta, ma, addirittura, si è allargata in questi anni, complice anche la crisi. Dagli indici di povertà e di esclusione sociale, dai livelli occupazionali e di reddito pro-capite, fino alla qualità dei servizi (sanità, scuola, trasporti), in tutti i rapporti più recenti continuano a emergere (almeno) due tipi di Italia. Poi, perché quella del Sud continua ad essere una gigantesca questione nazionale: fino a quando non ci sarà un sostanziale, apprezzabile, riequilibro tra Nord e Sud in termini economici, a risentirne sarà l’economia nazionale nel suo complesso.

Ma che fare?

Negli ultimi anni, gran parte del mondo accademico e della politica, economisti, storici, giornalisti, si sono detti d’accordo sull’improponibilità di una strategia improntata allo spirito del vecchio “intervento straordinario”. Eppure, la straordinarietà della situazione del Mezzogiorno, richiederebbe, ancora, interventi mirati e aggiuntivi rispetto a quelli ordinari (E’ questo che si propone il nuovo Ministero del Sud?). Di più. Nonostante il fallimento (il divario non è stato colmato), almeno su grande scala, delle strategie e degli interventi posti in essere fino agli inizi degli anni Novanta, alcune intuizioni contenute nell’ultima legislazione in materia andrebbero addirittura riprese e rilanciate. Tra queste, il concetto di “programmazione partecipata”, richiamato nella legge n. 64 del 1986, per una nuova politica industriale e di coesione. Un nuovo protagonismo dello Stato e dei territori, dei cittadini. Anche perché l’alternativa allo sviluppo calato dall’alto non può essere l’abbandono a se stessa della parte più debole del paese, spacciando tutto questo per “sviluppo autocentrato” (viene in mente la retorica speciosa sugli “imprenditori di se stessi”).

Programmazione e partecipazione degli attori locali ai processi decisionali, dunque. A maggior ragione oggi, questa sembra l’unica via perseguibile per invertire la rotta nel Mezzogiorno e far tesoro delle esperienze positive che si riscontrano nei vari territori. Cambiando radicalmente l’agenda degli ultimi trent’anni (privatizzazioni), il Mezzogiorno dovrebbe diventare il laboratorio di un nuovo intervento pubblico in economia, che non escluderebbe, insieme al sostegno verso iniziative autonome, la creazione d’industrie statali in settori innovativi e ad alto valore aggiunto (es: robotica, software, componentistica), capaci di reggere la concorrenza internazionale. Un piano industriale, senza giri di parole.

Parallelamente, coinvolgendo gli attori locali, si dovrebbe puntare sulle filiere produttive legate alla natura, al paesaggio, all’ambiente e alla cultura, incrociando, valorizzando, potenziando le esperienze già attive e di successo sviluppatesi in questi ambiti. Rigenerazione urbana, recupero del degrado ambientale e del dissesto idrogeologico, agricoltura di qualità, turismo sostenibile, accoglienza, solo per citarne qualcuna, coniugando sostenibilità ambientale delle attività poste in essere e sostenibilità economica dei percorsi d’intrapresa, grazie alla mano pubblica. Inutile ricordare, poi, che il sostegno alla domanda interna e la creazione di nuova occupazione nel Mezzogiorno avrebbero effetti positivi sull’intera economia nazionale, rendendo stabile e duratura la ripresa, trainando, ben oltre l’export, l’industria del Nord, imperniata sul capitale privato. Un tema da sviluppare.

Si potrebbe obiettare: ma questo è incompatibile con i vincoli di finanza pubblica imposti dall’Europa e, probabilmente, anche con le regole a tutela della concorrenza nel mercato unico! Sì, ma proprio qui sta la sfida. È ormai evidente che la disciplina del Patto di bilancio europeo e l’intera architettura pro-mercato dell’Unione sono in contrasto con la nostra Costituzione, che invece subordina l’iniziativa privata al principio della “utilità sociale” e impegna lo Stato a perseguire l’obiettivo dell’uguaglianza sostanziale dei cittadini. Applicare la Costituzione significa mettere in mora i Trattati. O viceversa. E questo vale anche per la “questione Sud”.

 

Di Luigi Pandolfi

Fonte: http://www.osservatoriodelsud.it/2018/06/21/sud-lo-ancora-fondamentale/

Foto RETE

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