50 anni fa lo STATUTO DEI LAVORATORI

La ricorrenza, il 20 maggio, dei cinquant’anni dall’approvazione dello Statuto dei lavoratori è innanzitutto l’occasione per rievocare la storia di quegli anni e le vicende che ne accompagnarono il varo.

Fino a tutti gli anni Sessanta le fabbriche italiane furono caratterizzate da un rigido sistema repressivo di ogni velleità rivendicativa. Così Marco Revelli descrive la situazione nella fabbrica-simbolo, la Fiat di Valletta: «Una struttura rigida e gerarchizzata, impegnata, allora, in uno sforzo produttivo senza precedenti, che andava sottoponendo ogni struttura, ogni segmento del ciclo lavorativo a tensioni violente, a sfide sovrumane» (Lavorare in Fiat, Garzanti, Milano, 1989, p. 31). Ma, nel tempo, le fabbriche diventarono anche il luogo delle alleanze e di una nuova solidarietà, capace di superare le barriere della diversa provenienza geografica o delle divergenti ideologie sindacali o politiche: il recupero dell’unità sindacale costituì un argine alla richiesta di sempre maggiori livelli di produttività e la leva per ottenere un miglioramento delle condizioni di lavoro. Si arrivò così al biennio 1968-69.

Il 1969 addensa, nell’Italia del boom, le proteste dei movimenti operai, studenteschi, femminili e le richieste di nuove libertà e di nuovi diritti, come il divorzio e l’aborto. Scioperano i metalmeccanici, gli edili, gli agrari. Due braccianti vengono uccisi ad Avola dal fuoco della polizia nel corso di una manifestazione per aumenti salariali e per la parità di trattamento nella stessa provincia. Altri due lavoratori muoiono a Battipaglia negli scontri con la polizia a causa della chiusura di uno stabilimento industriale. A luglio Cgil, Cisl e Uil approvano una piattaforma unitaria con cui chiedono aumenti di salario e il superamento delle “gabbie salariali”, riduzioni di orario e normative di tutela della salute in fabbrica. Il movimento di protesta sembra inarrestabile.

Così la proposta di uno Statuto dei lavoratori, lanciata per la prima volta da Giuseppe di Vittorio nel 1952 nel corso del terzo congresso della Cgil, trova finalmente concreti sviluppi: il ministro del lavoro e della previdenza sociale, Giacomo Brodolini, ottiene dal Parlamento l’istituzione di una Commissione per la redazione della bozza di Statuto, presieduta dal giuslavorista e parlamentare socialista Gino Giugni. Lo Statuto viene approvato nel 1970 con la legge n. 300: l’astensione del Pci si giustifica con la denuncia di alcuni suoi limiti, in particolare in relazione all’esclusione delle tutele per i lavoratori delle imprese minori.

Con lo Statuto, la Costituzione entra nelle fabbriche. Il disegno costituzionale di promozione dei diritti collettivi e di garanzia delle tutele individuali trova nel testo del 1970 una organica realizzazione.

Nello Statuto si dà concretezza a diritti e libertà garantiti universalmente dalla Costituzione: anzitutto la libertà del lavoratore – senza distinzione di opinioni politiche, sindacali e di fede religiosa – di manifestare il proprio pensiero all’interno del luogo di lavoro. Si consentono così comportamenti sino ad allora vietati e puniti con il licenziamento immediato dei “reprobi”. L’ipotesi tipica è quella di chi viene colto a distribuire ai compagni di lavoro volantini di propaganda sindacale o di protesta nei confronti della gestione dell’impresa. Altre previsioni disciplinano la vigilanza all’interno delle aziende, che non può avvenire all’insaputa dei lavoratori o con controllo a distanza mediante mezzi audiovisivi. E viene introdotto il divieto di disporre indagini sulle opinioni dei dipendenti.

In forza di quel divieto vengono di lì a poco incriminati i dirigenti Fiat che, avvalendosi delle guardie di vigilanza interna e delle informazioni fornite dai carabinieri e da altri organi di pubblica sicurezza, avevano realizzato un sistema di investigazione sui dipendenti, con la creazione di un archivio di oltre 350.000 fascicoli personali. Il processo, trasferito da Torino a Napoli per ritenute ragioni di ordine pubblico, dopo una prima sentenza di condanna pronunciata nel 1978 (sette anni dopo il ritrovamento dei documenti), si conclude con la dichiarazione di prescrizione dei reati. In quella vicenda si trova molto della realtà delle condizioni del lavoro in Italia in quegli anni. Scrive Bianca Guidetti Serra, difensore del sindacato, costituitosi parte civile nel processo:

Quegli abusi circondati da una presunzione di impunità venivano da lontano, portavano il marchio della guerra fredda e non erano stati toccati dal disgelo costituzionale dei primi anni Sessanta. Era un pezzo di storia che costituiva un’offesa al tessuto civile e sociale del paese. Ma non era solo questo a indignare. Dietro quelle violazioni della riservatezza e dei doveri d’ufficio, dietro quella raccolta di notizie e pettegolezzi sconcertanti che nulla avevano a che fare con le qualità professionali dei dipendenti, c’erano le tante storie di persone in carne e ossa conculcate nei loro diritti, c’era una diaspora di espulsi dal lavoro, pur qualificati e specializzati, che faticavano ad essere assunti da altre fabbriche della zona, perché proprio quel licenziamento Fiat li faceva apparire indesiderabili, restava loro appiccicato addosso e ne segnava le vite. Molti furono costretti ad attività saltuarie, al commercio ambulante, alla manovalanza occasionale. Una grande dispersione di energie, di esperienze, di partecipazione umana, e in alcuni casi una fonte di disperazione profonda e drammatica.
Guidetti Serra (con S. Mobiglia), Bianca la Rossa, Einaudi, Torino, 2009

In generale, con lo Statuto si regolamenta il potere disciplinare del datore di lavoro che, in caso di ritenuta infrazione del dipendente, deve seguire precisi oneri di contestazione (utilizzando sempre la forma scritta e rispettando obblighi di tempestività e di completezza) e dare al lavoratore la possibilità di difendersi prima di adottare provvedimenti disciplinari (tra cui, ovviamente, il licenziamento). Il giudice potrà poi valutare la correttezza dell’operato del datore di lavoro, anche riguardo alla proporzionalità della sanzione irrogata rispetto alla gravità dell’addebito.

Ma la norma simbolo legge n. 300 è l’articolo 18, che tutela il lavoratore ingiustamente licenziato non solo con un risarcimento economico (come riconosciuto già a partire dal 1966) ma con la conservazione del posto di lavoro. Si realizza così il grande salto verso la cosiddetta “tutela reale”. Al lavoratore licenziato senza giusta causa o giustificato motivo, se occupato in una azienda con più di quindici dipendenti, è garantita da lì in avanti la reintegra (cioè il diritto a rientrare nel posto di lavoro) così ponendo un concreto deterrente alla libertà di licenziare. Individuato come dispositivo chiave della specialità del diritto del lavoro, l’articolo 18 diventa il perno per l’esercizio di tutti gli altri diritti e per l’operatività di tutte le garanzie poste a difesa delle libertà, individuali e collettive, dei lavoratori. Ne è riprova la previsione che per i lavoratori non tutelati dall’articolo 18 possono il termine per far valere i propri diritti inizia a decorrere con la cessazione del rapporto, sul presupposto dell’effetto frenante esercitato, in precedenza, dal timore di perdere il posto di lavoro. Di più, l’articolo 18 concorre a sostenere anche l’esercizio delle libertà sindacali che, in sua assenza, sarebbero ben più condizionabili e comprimibili dalla parte “forte” del rapporto. Con lo Statuto dei lavoratori il sistema sindacale, realizzatosi (stante la mancata attuazione dell’articolo 39 della Costituzione) come sistema di fatto, autogestito e autoregolato, riceve una fondamentale spinta propulsiva che – come è stato scritto – ne supporta la funzione di «riequilibrare il potere sociale nella sfera della produzione attraverso la rappresentanza collettiva degli interessi, l’organizzazione del conflitto e la contrattazione collettiva».

Il legislatore del 1970 emana anche altre norme di sostegno dell’attività dei sindacati. In particolare, garantisce alle organizzazioni sindacali maggioritarie la possibilità di essere presenti in azienda con proprie rappresentanze (le RSA); riconosce i diritti di organizzazione di assemblee all’interno del luogo di lavoro, di affissione e diffusione del materiale sindacale, di fruizione di permessi per i rappresentanti dei sindacati; introduce, nell’articolo 28, uno strumento processuale finalizzato alla repressione delle condotte antisindacali attraverso accertamenti snelli e informali e con l’adozione di pronunce rapide ed efficaci quanto alla rimozione delle conseguenze delle violazioni.

L’architettura dello Statuto (che si completerà dopo tre anni con l’introduzione di un giudice e di un processo ad hoc) risponde allo stesso disegno che aveva guidato i Costituenti all’indomani della fine della guerra. Oggi c’è chi ne denuncia la rigidità, l’anacronismo, l’eccessiva penalizzazione dell’imprenditore. Ma nessuno può disconoscere quanto di quella legislazione, tra l’altro di una chiarezza esemplare, si è tradotta in una nuova civiltà del lavoro, fatta anche di rispetto e di tutela della salute, della libertà di pensiero e di critica: in una parola, del riconoscimento della dignità dei lavoratori. Contro la “ferocia” di una parte ‒ o, quantomeno, contro la ricerca di massimizzazione dei profitti attraverso lo sfruttamento della forza lavoro ‒ è dovere della Repubblica, scolpito dalla Costituzione, porre in essere barriere efficaci a difesa dell’integrità, morale e fisica, del lavoratore. Lo Statuto vi ha dato seguito.

La storia successiva ha seguito una parabola che via via si è allontanata da quel disegno, rinnegando l’intento di garantire la condizione di chi lavora attraverso l’adozione di specifiche tutele e il riconoscimento di diritti individuali e collettivi. Come è noto, con il Jobs act si è anzi completato il progetto della sostanziale abrogazione della possibilità di sanzionare il licenziamento illegittimo con la reintegra del lavoratore nel posto precedentemente occupato. Gli effetti di questa generalizzata precarizzazione di tutti i rapporti, anche quelli formalmente a tempo indeterminato, sono sotto gli occhi di tutti: non vi è stato alcun aumento strutturale dell’occupazione, ma nel contempo il lavoro conosce sempre più impoverimento e sfruttamento.

Certo, molto è cambiato nella stessa organizzazione del lavoro da quegli anni ad oggi. La fabbrica non costituisce più l’archetipo della struttura in cui ambientare il rapporto, la nostra economia sembra sorreggersi molto più sulla prestazione di servizi immateriali piuttosto che sulla produzione di beni. Aumenta il ricorso ai cd. “nuovi lavori”, gestiti in molti casi da piattaforme informatiche spersonalizzate (ma non per questo il vincolo gerarchico si è attenuato).

Che oggi, a cinquant’anni di distanza, l’apparato legislativo dello Statuto non sia più in grado di proteggere e sorreggere il frammentato mondo del lavoro, popolato da tante figure di lavoratori atipici privi di accesso allo stesso catalogo di tutele e di diritti, è un dato di fatto che non può essere ignorato. Ma, pur senza vagheggiare irrealistici ritorni indietro, è necessario coltivare visioni di un futuro in cui sia salvaguardata la valenza del lavoro come fattore di realizzazione di cittadinanza. Lo Statuto ha costituito, e ancora costituisce, una traduzione in legge di questo programma democratico. La sfida oggi è quella di cambiare lo strumentario ma per perseguire lo stesso obiettivo.

Carla Ponterio e Rita Sanlorenzo

FONTE: https://volerelaluna.it/in-primo-piano/2020/05/19/lo-statuto-dei-lavoratori-dopo-cinquantanni/

FOTO: Rete

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