STORIE CALABRESI – Giovanni Dionigi, diventa Ulug ALlì

Ulug Alì

Nella prima metà del ‘500, da Birno Galeni e da Pippa di Cicco, popolani di umilissime condizioni e di costumi specchiati, nacque, nel borgo marinaro di Le Castella, Giovan Dionigi, brutto, tignoso e malformato, il quale, crescendo, si rivelò parecchio destro d’ingegno, ma pure tormentato dalla propria condizione fisica e sociale, e finì per imbozzolarsi in una scorza scontrosa, solitària. E con tali stimmate addosso, dentro, Giovan Dionigi un uomo qualunque non lo sarebbe mai stato: poteva diventare sia il presunto pazzo del villaggio, cioè un diverso incompreso e sfottuto da tutti, spinto fino alle soglie dell’alienazione e anche oltre, sia un personaggio d’eccezione, carismatico, ad esempio brigante, o condottiero, o capopopolo. Tutto dipendeva da ciò che gli avrebbe riservato la sorte, che nel 1536 gli si presentò con le insegne della mezzaluna.

 Durante una scorreria turchesca guidata dal famigerato Kahir ed Din Barbarossa, Giovan Dionigi venne fatto schiavo. Incatenato nella stiva con altri compaesani, fu portato a Costantinopoli e venduto per una miseria a Giafer, anch’egli corsaro, che lo comprò per utilizzarlo ai remi delle proprie fuste; ma Giafer, e pure la moglie Mortama, col tempo finirono per affezionarsi a quello sgorbio che per quanto era brutto tanto era coraggioso, sveglio, determinato e pronto nelle decisioni; sotto la scostante e ruvida scorza dello schiavo essi intravidero doti non comuni e seppero apprezzarlo per queste. Giovan Dionigi, da parte sua, capì ben presto d’essere al guado cruciale della propria esistenza: rinnegando la fede cattolica e abbracciando quella mussulmana, avrebbe potuto impadronirsi del proprio destino, altrimenti gli sarebbero rimasti davanti solo giorni e giorni a essere meno di niente; così, convinto anche da Mortama che voleva accasarlo con la figlia Bragaduna, si fece «infedele», e da quel momento seppe lui come spogliarsi delle penne del brutto anatroccolo per vestire quella del falco. Il suocero Giafer gli mise a disposizione le proprie fuste ed egli, ribattezzato Ulug Ali, diventò l’ombra dell’ammiraglio Dragut, al punto che quando questi morì, potè vantare meriti e capacità sufficienti per prenderne il posto anche quale governatore di Tripoli.

E questo non fu che l’inizio della sua scalata al potere e al successo, soprattutto perché, a differenza degli altri corsari, desiderosi solo di bottino e di schiavi, egli tenne lo sguardo sempre puntato in alto e rivelò determinazione, intelligenza e astuzia in dosi  sufficienti a permettergli di districarsi con molta abilità nelle più difficili situazioni tanto belliche quanto diplomatiche e carrieristiche. Non a caso, alla battaglia di Lepanto fu l’unico ammiraglio della flotta turca che riuscì a sottrarsi con una manovra genialmente spericolata alla stretta delle navi cristiane, e, quindi, a salvarsi; poi, profittando abilmente del fatto che era il solo personaggio di peso sopravvissuto alla battaglia, conquistò posizioni di sempre maggior prestigio: diventò re di Tripoli, Tunisi e Algeri e, pure, Grande Ammiraglio della flotta turca, a cui restituì consistenza e capacità offensiva.

Battaglia di Lepanto del 1571 – Artista sconosciuto

Ma, probabilmente, tutto ciò non bastava a cancellare in lui l’ombra della scelta a suo tempo fatta per cambiar sorte, o, forse, l’essere una specie di padreterno non lo appagava totalmente alla luce del fatto che il prestigio e la potenza conquistati diventavano fango nella patria d’origine, ove rimaneva comunque un rinnegato: segretamente cominciò a tessere un accordo con la corona di Spagna per tornare con tutti gli onori in patria e al cattolicesimo, diventando principe di Salerno, ma il suo disegno aborti allorché l’intermediario venne misteriosamente fatto uccidere da qualcuno che tramò proprio per mandare all’aria i suoi progetti.

Ulug morì di vecchiaia, e fu sepolto nella stupenda moschea che s’era fatta costruire in Costantinopoli a specchio della condizione raggiunta. E, certo, i suoi ultimi istanti di vita furono resi amari dal ricordo d’una staffilata troppo bruciante per essere cancellata dai tanti successi ottenuti: all’apice della potenza, un giorno s’era presentato a Le Castella al comando d’una flotta imbandierata, e aveva chiesto alla madre solo di riabbracciarla; ma Pippa manco volle guardarlo, e se lo guardò nemmeno lo vide: quell’uomo che, a prezzo di tante vite umane e, soprattutto, della fede dei padri, era diventato il ricco, potente e famigerato Ulug, non era suo figlio, perché il suo Giovan Dionigi era morto quel giorno che gli indemoniati erano piombati sulla spiaggia di Le Castella come uccelli di rapina, e avevano ucciso, distrutto, razziato, ammazzandole anche il marito.

Sa di mito la forza di Pippa che, pur avendo lì a un passo l’unico figlio che le era rimasto e che non vedeva da tanto, neanche gli rivolse un fuggevole sguardo; ma sa di mito pure la delusa amarezza di Ulug: pensava di poter mettere ai piedi della madre tutta la propria ricchezza e tutta la propria potenza perché fosse fiera di dov’era arrivato quel suo figliolo malformato, tignoso e selvatico, e, invece, sotto il peso del di lei rifiuto, aveva dovuto rimettere le vele al vento verso una patria d’accatto, che, però, gli aveva dato occasioni manco lontanamente immaginabili nella patria d’origine.

Da GUIDA ALLA CALABRIA MISTERIOSA, di G. Palange – Rubbettino

Foto: Rete

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