LA TRAVAGLIATA VITA DEL BOSCO IN CALABRIA

ORSOMARSO – Valle Dell’Argentino

A rendere gracile lo sviluppo della Calabria ha contribuito un punto di partenza assai svantaggiato, tale che — tutto sommato — gli stessi incrementi in agricoltura realizzati in quest’ultimo secolo non andrebbero presi con troppa disinvoltura. A parte il degrado oroidrogeologico apportato dagli uomini e la montuosità imposta dalla natura, fino a tempi a noi vicini ben più della metà del territorio calabrese è stata occupata da boschi e pascoli naturali. Questa proporzione era ancora, nel 1830, del 48 per cento, con esclusione dei castagneti e delle selve cedue: quindi boschi (19,44) e pascoli (28,56), non compatibili con altra produzione estranea al loro esclusivo frutto. In seguito, il pascolo naturale è andato inesorabilmente scomparendo davanti alla razionalizzazione e tipizzazione delle colture: l’incolto produttivo è passato dall’8,4 per cento del 1911 al 7,7 del 1929,3! 2,1 del 1961, allo 0,00 del 1981, e i prati-pascoli permanenti dal 16,3 al 13,7 ali’11,8 allo 0,00, segno della definitiva rinuncia della Calabria alla vocazione dell’allevamento. Ma il bosco è stato tutelato, almeno negli ultimi cento-centoventi anni, cioè da quando gli agronomi meridionali hanno avuto la netta sensazione che la Calabria sarebbe andata allo sfacelo oroidrogeologico se non si fosse intervenuti con massicci rimboschimenti che ponessero qualche riparo alle grandi deforestazioni verificatesi tra Settecento e Ottocento. L’ultimo poderoso saccheggio delle risorse arboree, della Sila soprattutto, si è avuto al tempo dell’occupazione angloamericana del secondo dopoguerra.

Ma è tra il Settecento e l’Ottocento, dunque, che va collocato il vero grande assalto al bosco di Calabria. È senz’altro vero che piccole e parziali erosioni non erano mai mancate, lungo il Medioevo e l’età moderna, soprattutto ad opera di tutte quelle popolazioni che, poste in cima ad alture, dovevano usare di legname, di pascoli e anche, dove possibile, di seminativi nudi; e solo la grande staticità demografica di Calabria aveva evitato che l’arroccamento delle popolazioni, inizialmente conclusosi con l’erosione del bosco tutt’intorno agli abitati, procedesse sulla strada di un indefinito disboscamento. D’altra parte, le autonome capacità di rigenerazione avevano consentito al bosco di equilibrare le perdite e di rimarginare le ferite. Ma nel Settecento avanzato si mise in movimento un grande processo di sistematica erosione marginale e di degradazione — quantitativa e qualitativa – a danno dei boschi di Calabria, della Sila soprattutto.

Solo un ampio quadro d’insieme può fornire le linee delle evoluzioni succedutesi – schematicamente parlando – dal Settecento ai nostri giorni. Chi oggi guardi la Carta di utilizzazione del suolo della Calabria (1956), rimane colpito dal netto predominio delle zone a vegetazione spontanea – che il recente processo di abbandono dei comuni rurali non ha certamente ridotto. Questa vegetazione di tipo arbustivo o stancamente arboreo, spesso disordinata e quasi inestricabile, è quella su cui può posarsi l’occhio di chi voglia chiedersi donde derivi la capacità di sostentamento del carico umano e, in una parola, il reddito agricolo, in una regione per tanta parte ancora pervasa dalla spontaneità dell’impianto botanico. Certo, siffatta vegetazione s’alterna a seminativi e, più in alto, a pascoli naturali, e lascia intravedere qualche intervento emendatore dell’uomo; ma è agevole concludere che quelle vaste estensioni, oggi popolate da cespugli d’ogni genere, sono in effetti il residuo di uno sviluppo avviato e poi interrotto qualche secolo fa. Dominio di alberi annosi, tolti di mezzo dall’uomo per sua immediata necessità, e poi riabbandonati alla propria autonoma crescita, quelle zone non sembrano più interessare né la natura né l’uomo. Così, la macchia mediterranea nella zona del colle-piano, il bosco nella fascia altitudinale più elevata, spesso mostrano i segni di un intervento umano discontinuo, non ordinato: seminativi – nudi o arborati — che sembrano pascoli, e convivenza, o esagerata promiscuità, di terreni diversissimamente vocati.

Nonostante gli sforzi cospicui per la rigenerazione del manto boschivo di Calabria, questi sono i resti di una disgregazione o degradazione voluta dall’uomo che, eliminata la foresta e l’ordine di natura, non ha saputo sostituirvi nuove razionali colture e un altro ordine proprio. Altrove c’è capitato di dire che in Calabria la natura – almeno fino a tempi a noi molto vicini – è stata portata a farla da padrona e a vendicarsi dell’uomo per le offese a lei arrecate attraverso il disordine oroidrologico; ma si tratta di un dominio compromesso e lacerato, giacché le varie fasce di spontaneo predominio botanico, che nel loro regolare susseguirsi, di livello in livello, dovrebbero rivelare il vero incontrastato dominio della natura, sono percorse dappertutto da lingue di colture diverse, o da pascoli, e insomma da interventi umani che, bisognosi — qui più che altrove — di una continuità d’applicazione, dimostrano l’episodicità degli interventi e, spesso, una iniziale corposa febbre di trasformazione seguita dall’abbandono alla spontaneità, che per ora non può più tornare alle qualità di un tempo. Modestia d’interventi e convivenza di colture diverse, con forme di consociazione che impoveriscono più che arricchire i rispettivi protagonisti botanici, sono pecca vecchia dell’agricoltura calabrese, in cui la specializzazione colturale è conquista recente.

(Continua)

Da LA CALABRIA, AA.VV. – Einaudi

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