I «vattienti» di Nocera Terinese

 

Negli ultimi anni alcuni riti, per la loro peculiarità e per certi aspetti particolarmente drammatici, sono stati oggetto di attenzione, osservazioni, visite e anche luogo privilegiato di una sorta di turismo culturale e religioso che meriterebbe di essere indagato. Il rito del sabato santo di Nocera Terinese, per i suoi aspetti «cruenti» e per la forte drammaticità che lo caratterizza, è uno dei più noti, dei più osservati e dei più visitati. Allo studioso e mio fraterno amico Franco Ferlaino devo l’opportunità di essere stato introdotto nella comunità di Nocera. Grazie a lui, sin dalla fine degli anni Settanta, osservo, documento, fotografo e filmo il rito dei «vattienti». Per questo, so bene che è impossibile, in poche pagine, dare conto della sua complessità e dei significati della messa in scena del rapporto che la comunità intrattiene con il sangue, il corpo, l’immagine, la morte, la vita, il sacro, la violenza. Pur avendo presente lo sfondo teorico (antropologico e di storia delle religioni) entro cui tutto ciò si iscrive, non è di questi aspetti che voglio e posso parlare in queste righe. […] Mi sembra interessante concentrare l’attenzione su quelle figure mobili che animano il rito, segnalandone il dramma, l’intensità dell’attesa, della preparazione, del superamento della soglia, dell’incontro con la processione, della sosta, del cammino, della corsa, dello spaesamento.

Il sabato di Pasqua alle ore 8.30 dalla chiesa dell’Annunziata esce il corteo processionale con la statua della Madonna Addolorata (la «Pietà») con in braccio il Cristo morto, portata da quaranta appartenenti alla confraternita. Il corteo, accompagnato dalle marce funebri della banda, procede lento per le vie del paese. Nel frattempo, in spazi privati (case, magazzini, bassi, garage), alcuni abitanti di Nocera preparano la «quaddara» (grossa pentola di rame) dove viene fatta bollire dell’acqua assieme a ramoscelli di rosmarino. L’infuso, che contiene anche il tannino in quantità non elevata, ha valore medicamentoso, antisettico e astringente: verrà spalmato dal vattente sulle cosce e i polpacci, le parti del corpo sulle quali si batterà. Il vattente è accompagnato da due giovani amici: uno è «l’acciomu» («l’Ecce Homo»), l’altro porterà, durante il «viaggio di flagellazione» un contenitore di vino, che il vattente usa per impedire il coagulamento del sangue quando si batte. Il ragazzo che fa l’acciomu si spoglia a torso nudo, si cinge i fianchi con un panno rosso che gli arriva fino alle caviglie, si pone sul capo una corona di spine acuminate. Sulla spalla porta una croce fatta con listelli di legno a cui sono legate delle bende rosse. L’acciomu è di solito un ragazzo che non ha superato l’età puberale, comunque non è quasi mai sposato. Questa figura è stata introdotta negli ultimi anni dell’Ottocento, successivamente è stata abolita poi ancora ripristinata. La figura del «portatore di vino» è invece recente; il suo ruolo, pur considerato secondario, acquista grande rilievo perché attesta una nuova elaborazione del rito. Il vattente indossa una maglietta o una camicia (quasi sempre nera) e dei pantaloncini corti, attorcigliati all’inguine, anch’essi di colore nero. Porta in testa un fazzoletto nero detto «mannile», sul quale poggia una grande corona di spine. Vattente e acciomu, entrambi scalzi, si tengono legati con un cordoncino nero, avvolto attorno alla loro vita. Così uniti cammineranno a distanza di due metri l’uno dall’altro. La statua della Pietà viene fatta sostare davanti ad abitazioni di amici e familiari dei portantini, davanti alle case degli ammalati e delle famiglie più in vista. Già intorno alle dieci del mattino, si scorgono centinaia di forestieri, turisti, curiosi, devoti di diverse parti della Calabria, giornalisti, fotografi sistemati ai lati del corteo processionale o nei punti salienti del rito.

Il vattente, finita la vestizione, si «arrosa»: bagna le mani nell’infuso di rosmarino e si riscalda i muscoli delle gambe e delle cosce. Poi si percuote con la «rosa», un disco di sughero (dal diametro di 9-12 cm. e dallo spessore di tre) con il quale iperemizza i polpacci con colpi e strofinii. Quando i polpacci sono pronti, già arrossati, il vattente prende il «cardu», un disco simile alla rosa, sul quale sono state fissate, con una colata di cera vergine mista a cera di sego, tredici «lanze», punte acuminate di vetro prese da una lastra rotta. Con il cardu il vattente si batte sulle parti preparate. Lungo le gambe cominciano a scorrergli rivoli di sangue con cui segna le spalle e il petto dell’acciomu. I tre protagonisti del rito, a questo punto, escono per andare incontro alla processione. Il vattente compie, in genere, la prima flagellazione sulla soglia della propria abitazione (dove è avvenuta la vestizione) e con un colpo di rosa intriso di sangue, segna l’uscio e lo stipite. Poi, a passo veloce, quasi di corsa, si addentra nei vicoli del paese, fermandosi per battersi davanti alla casa di qualche amico. Le persone che sono dentro casa escono, salutano con affetto, qualcuno si occupa di versargli vino in abbondanza sulle ferite. Egli è però attratto dal fulcro della festa e si dirige verso il corteo processionale.

Quando i confratelli lo vedono arrivare, fermano la statua della Pietà. La folla si allarga, fa passare il vattente che si genuflette davanti alla statua e si batte con grande trasporto, infliggendosi colpi secchi e rumorosi. Finita la flagellazione, il vattente sanguinante bacia la Pietà. I tre protagonisti del rito posano davanti alla statua per il fotografo del luogo, il quale, come osserva Franco Ferlaino, che resta il più attento osservatore del rito, «ha il ruolo di testimone ufficiale, provvede ad immortalare l’espletamento dell’impegno preso, della parola data, del voto fatto alla Madonna» (Ferlaino, 1991).

Poi, con andatura sempre più veloce, si dirigono verso altri luoghi deputati per battersi: i sagrati delle chiese, le croci ed i calvari che si trovano lungo il tragitto processionale, le soglie delle abitazioni di persone verso cui il vattente nutre sentimenti di stima e gratitudine. Lungo il percorso da lui stabilito, si ferma per pulirsi, colpendosi con la rosa, in modo da mantenere aperte le ferite, e per lavare con il vino il sangue che tende a coagularsi lungo le gambe.

Ogni vattente decide individualmente l’ora d’inizio del suo giro devozionale, il suo personale tragitto, anche se tutti privilegiano il percorso della Pietà. Di fatti, il vattente calcola con grande meticolosità tempo e spazio in cui incontrare la statua dell’Addolorata con il Cristo morto. Nella maggior parte dei casi, l’incontro viene fatto accadere quasi all’inizio del rito, nella prima mattinata, lungo il corso principale del paese.

Il viaggio del vattente, fatto di corse, soste, cammino dura circa un’ora, prima che egli ritorni al luogo della vestizione. Qui, ricorre a rapidi e ripetuti impacchi di infuso di rosmarino, grazie ai quali il sangue cessa lentamente di fuoriuscire. Anche se ferite e cicatrici resteranno visibili a lungo. I tre amici, dismessi gli abiti del rito e indossato quelli della festa, raggiungono la processione della Pietà. Il rito votivo è stato compiuto, e alcuni tra i vattienti si uniscono ai congregati che portano la statua in processione, che si protrae fino al tardo pomeriggio.

Mi sembra importante riportare la testimonianza di Salvatore Piermarini, uno dei primi a fotografare nel 1973 il rito con uno sguardo rispettoso e lontano dalla tipizzazione già allora in auge:

Questa gara non è una semplice prova di «balentia» ma è anche una penitenza, un’offerta di fatica, sudore e sangue. Ricordo la storia di un operaio emigrato, figlio di contadini e lontano per lavoro in Germania, che avrebbe dovuto essere uno dei vattienti ma non era riuscito a tornare in paese. Prima della festa aveva mandato alla sua famiglia un litro del suo sangue, che per voto s’era fatto salassare in segno di devozione e rispetto alla promessa, e per essere, a suo modo, comunque presente al rito della Passione. Un gesto eclatante, quasi estremo ma moderno per quegli anni, di sacrificio, di appartenenza alla comunità, un segno clamoroso e simbolico del legame tra il mondo contadino e quello operaio. […]

 

VITO TETI

Da “Terra inquieta” – Rubbettino

Foto: Rete

 

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