MATTEO PUCCIARELLI – Con la pelle dei signori ci farem tanti tamburi

PRIMA GUERRA MONDIALE – Soldati in trincea

MATTEO PUCCIARELLI – Con la pelle dei signori ci farem tanti tamburi

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PRIMA PARTE

Da appassionato di storia resto convinto che si è ciò che si è stati prima di noi, e che si percorre una direzione grazie ai sacrifici e alle idee di chi ci ha preceduti. Dipende da noi, certo, chi vogliamo essere e perché. Ma siamo comunque frutto di qualcosa, e di qualcuno. Dei suoi ideali e delle sue passioni.

Questa che andrete leggendo è una storia a cui sono molto affezionato. È il racconto di un’Italia lontana, ma che ha qualcosa da insegnare ancora oggi. Ringrazio mio nonno, Carlo Pucciarelli, per avermela affidata. Ne vado fiero.

“Primi anni del ‘900. Mio padre Angiolo resta orfano: aveva sei anni, un fratello di sette, l’altro neonato. Il più piccolo fu dato alla balia ed è praticamente cresciuto con la sorella di latte, gli altri affidati agli zii tutori. Erano tempi di miseria, babbo e mamma mi hanno raccontato poco della loro vita infantile, so solo che mio padre, «per gioco» a sette anni andava alla fornace per ammucchiare i mattoni.

Nel 1915, con la Prima grande guerra in corso, mio padre diciassettenne fu spedito in prima linea dopo solo una quindicina di giorni di esercitazione, il fratello maggiore era già da mesi a combattere. Entrambi feriti: babbo lievemente alla testa (ha portato fino alla morte una scheggia di granata dietro l’orecchio destro: io mi divertivo da bimbo a sentirgliela sotto la pelle), mio zio gravemente, tanto che, esonerato dal servizio militare, è morto pochi anni dopo e al suo funerale irruppero squadracce di fascisti che manganellarono tutti i partecipanti: la colpa di mio zio era di essere socialista. Mio padre, invece, nel 1921, aderì alla frazione comunista. L’altro fratello minore si iscrisse invece al fascio, e tanto fece successivamente per avere «l’alto onore», il riconoscimento di fascista antemarcia.

Passano gli anni, si arriva al 1940: devo fare la prima comunione. Ci arrivai impaurito per le “minacce” di don Giulio che ci parlava di angeli custodi e di atti impuri da confessare per non andare all’inferno. Ora, di atti impuri da bimbetti se ne commettevano abbastanza (certo non come ai nostri giorni) ma fra giochi del dottore, perché «io c’ho il pipi e tu la topa», qualche toccatina più o meno innocente, il nostro angelo custode doveva aver riempito di note il suo taccuino. Al momento dell’ostia non accadde nulla, né fulmini né roghi: e così mi resi conto che anche i preti dicevano le bugie, e la mia fiducia credulona crollò.

Mussolini dichiara guerra, accodandosi alla Germania: manifestazione, evviva,vinceremoguerra lampo… Io mi sentivo orgoglioso nella mia divisa di figlio della lupa: tornai a casa e trovai i miei genitori come imbronciati, poche parole, tristi. Non me ne rendevo conto: babbo mi disse che la guerra non era una cosa buona. Pochi giorni dopo arrivò il primo bombardamento su Livorno: un solo aereo partito dalla Corsica, qualche bomba, colpito un obiettivo “strategico”, cioè l’albergo Palazzo sul lungomare. Fu una fuga: colonne di livornesi con carri, carretti, qualche camion abbandonarono la città verso la “sicura” Montenero, o Quercianella e il Gabbro. Erano i primi sfollati.

Arrivarono le tessere annonarie per gestire il razionamento: 150 grammi di pane al giorno, cosa che per molti è una dose enorme ma che a quei tempi bastava solo per fare merenda. Cominciai a riflettere su fatti, episodi e avvenimenti degli ultimi anni.

E così ripensai alla raccolta del ferro per la patria, la fede di mamma donata per la raccolta dell’oro, la guerra d’Abissinia, il motto della conquista dell’impero prima e dell’Albania dopo con le sfilate in divisa per inneggiare a Vittorio Emanuele III re d’Italia e d’Albania, Imperatore d’Etiopia.

A scuola eravamo bombardati dagli slogan sul Duce condottiero, su Roma Imperiale, sulle nemiche plutocrazie occidentali che volevano punire la Grande Nazione Italiana. Tornavo da scuola orgoglioso del Duce e mio padre scuoteva le testa in silenzio. Sentii mamma canticchiare, più di una volta, un ritornello del quale ricordo poche parole: «Con la pelle dei signori ci farem tanti tamburi…». Quando andavamo in visita dai parenti di mamma, contadini, una famiglia di 20 persone (il vecchio capoccia al quale figli e moglie si rivolgevano dandogli del “voi”) li sentivo sempre bestemmiare e maledire il «capoccione» perché mandava i figli della terra a combattere in terre lontane invece di farli lavorare nei loro campi: infatti un figlio, Angiolino, era stato mandato in Africa, poi “volontario” in Spagna, tornato a casa fu rispedito in Albania, poi con l’Armir in Russia dove fu fatto prigioniero e rimpatriato, per fortuna, subito la fine delle ostilità: era partito per l’Africa con un figlio appena nato, tornò e lo trovò ragazzetto.

Un episodio mi colpì duramente: mio zio, l’ultimo fratello di babbo, era fattore in un paese a 20 chilometri da Livorno. Ci avvisarono che l’avevano portato, ferito, all’ospedale: era stato preso a forcate da un contadino durante la trebbiatura. Non capivo il motivo, poi scoprii che era stato aggredito perché litigava con un contadino che aveva accusato di aver nascosto del grano. Mi dicevo: perché zio non lo aveva lasciato perdere, in fin dei conti quel grano era del contadino che l’aveva seminato… Mio padre e lo zio, per questo episodio li sentii poi litigare: babbo lo rimproverava, ma sentii lo zio dire «guarda chi sono e non ricordar chi ero». Frase sibillina per me bimbo, ma chiara in seguito.

Con la dichiarazione di guerra era un susseguirsi di richiami alle armi, i goliardi marciavano spavaldi in piazza Cavour cantando inni di guerra, inneggiando all’invincibile Duce, sui muri delle case comparvero gli slogan fascisti: credere obbedire combatterevincerevinceremo, se avanzo seguitemi se indietreggio uccidetemi, la parola “Dux” dominava su tutto.

Un sabato pomeriggio, all’adunata settimanale, ero schierato con i compagni di scuola, di fronte a noi c’erano i grandi in camicia nera: mio padre arrivò in ritardo e con la camicia da lavoro; il ducetto di Antignano, inveendo, lo strattonò minacciando di prenderlo a schiaffi, lo fece allontanare. Io rimasi senza fiato a vedere mio padre trattato in quella maniera, quando tornai a casa piangevo. Babbo mi abbracciò e disse: non te la prendere, «è un fascista carogna», era la prima volta che usava simili termini. Ma qualcosa si era rotto in me, incominciai a odiare le marce, le manifestazioni, la montura. Presi a litigare con Marcello, l’amico del cuore, fascistello, figlio di un fascista accanito. Mi ricordo che sosteneva che Mussolini non era un uomo come tutti gli altri: addirittura che lui (con la “l” maiuscola) non andava al bagno, in pratica non cacava come tutti noi. Per vendicarmi gli dissi: «Guarda che fa degli stronzoli enormi con quel culo che ha». Facemmo la pace dopo di muso nero.

Eravamo nel 1942, era estate, per andare al mare passai lungo la ferrovia fino alla galleria del Boccale: lì c’era mio padre, ferroviere, che lavorava con altri cinque o sei operai. Mi disse: «Vieni con me che ti faccio vedere una cosa». Seguito dai sui colleghi entrò in galleria e si fermò in una garitta (lo spazio dove trovar rifugio quando passavano i treni), tolse un mattone dal muro, infilò la mano nel buco e tirò fuori un sacchetto. Lo aprì mostrandomi un distico rosso con la scritta PCI, una tessera con la stessa sigla e alcuni manifestini sui quali compariva la parola Unità. «Ecco — mi disse — questi sono i simboli dei comunisti, in un paese lontano c’è un uomo che si chiama Stalin, che guida una grande nazione nella lotta per liberare dalla schiavitù tutti gli uomini della Terra, per difendere chi vive del proprio lavoro, contro i ricchi padroni». Fu così che diventai comunista”.

(segue…)

Matteo Pucciarelli

Da blog-micromega

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