17 marzo 1861 – Non c’è niente da festeggiare

Palazzo Carignano a Torino, la riunione del primo parlamento italiano il 18 febbraio 1861

Palazzo Carignano a Torino, la riunione del primo parlamento italiano il 18 febbraio 1861

Il 17 marzo del 1861 nacque il Regno d’Italia.

Non suscita in me un particolare entusiasmo questa data. Il modo come fu unificata l’Italia e la politica condotta  verso il Sud fino ad oggi è una ferita che sanguina.

Lascio la parola a Pino Aprile che nel suo libro “Terroni” squarcia il velo dell’ipocrisia della retorica risorgimentale. 

“Io non sapevo che i piemontesi fecero al Sud quello che i

nazisti fecero a Marzabotto.

Ma tante volte, per anni.

E cancellarono per sempre molti paesi, in operazioni

“anti-terrorismo”, come i marines in Iraq.

Non sapevo che, nelle rappresaglie, si concessero libertà

di stupro sulle donne meridionali, come nei Balcani, durante

il conflitto etnico;

o come i marocchini delle truppe

francesi, in Ciociaria, nell’invasione, da Sud, per redimere

l’Italia dal fascismo (ogni volta che viene liberato, il

Mezzogiorno ci rimette qualcosa).

Ignoravo che, in nome dell’Unità nazionale, i fratelli

d’Italia ebbero pure diritto di saccheggio delle città

meridionali, come i Lanzichenecchi a Roma.

E che praticarono la tortura, come i marines ad Abu

Ghraib, i francesi in Algeria, Pinochet in Cile.

Non sapevo che in Parlamento, a Torino, un deputato ex

garibaldino paragonò la ferocia e le stragi piemontesi al

Sud a quelle di «Tamerlano, Gengis Khan e Attila».

Un altro preferì tacere «rivelazioni di cui l’Europa

potrebbe

inorridire».

E Garibaldi parlò di «cose da cloaca».

Né che si incarcerarono i meridionali senza accusa, senza

processo e senza condanna, come è accaduto con gl’islamici

a Guantánamo.

Lì qualche centinaio, terroristi per definizione, perché

musulmani; da noi centinaia di migliaia,

briganti per definizione, perché meridionali.

E, se bambini, briganti precoci;

se donne, brigantesse o mogli, figlie, di briganti;

o consanguinei di briganti (sino al terzo grado di

parentela);

o persino solo paesani o sospetti tali.

Tutto a norma di legge, si capisce, come in Sudafrica, con

l’apartheid.

Io credevo che i briganti fossero proprio briganti, non

anche ex soldati borbonici e patrioti alla guerriglia per

difendere il proprio paese invaso.

Non sapevo che il paesaggio del Sud divenne come quello

del Kosovo, con fucilazioni in massa, fosse comuni, paesi

che bruciavano sulle colline e colonne di decine di migliaia

di profughi in marcia.

Non volevo credere che i primi campi di concentramento

e sterminio in Europa li istituirono gli italiani del Nord,

per tormentare e farvi morire gli italiani del Sud, a

migliaia, forse decine di migliaia (non si sa, perché li

squagliavano nella calce), come nell’Unione Sovietica di

Stalin.

Ignoravo che il ministero degli Esteri dell’Italia unita

cercò per anni «una landa desolata», fra Patagonia, Borneo

e altri sperduti lidi, per deportarvi i meridionali e

annientarli lontano da occhi indiscreti.

Né sapevo che i fratelli d’Italia arrivati dal Nord

svuotarono

le ricche banche meridionali, regge, musei, case private

(rubando persino le posate), per pagare i debiti del Piemonte

e costituire immensi patrimoni privati.

E mai avrei immaginato che i Mille fossero quasi tutti

avanzi di galera.

Non sapevo che, a Italia così unificata, imposero una tassa

aggiuntiva ai meridionali, per pagare le spese della guerra

di conquista del Sud, fatta senza nemmeno dichiararla.

Ignoravo che l’occupazione del Regno delle Due Sicilie

fosse stata decisa, progettata, protetta da Inghilterra e

Francia, e parzialmente finanziata dalla massoneria (detto

da Garibaldi, sino al gran maestro Armando Corona, nel

1988).

Vittorio Emanuele II, pur essendo stato il primo re d'Italia

Vittorio Emanuele è II, pur essendo stato il primo re d’Italia

Né sapevo che il Regno delle Due Sicilie fosse, fino al

momento dell’aggressione, uno dei paesi più industrializzati

del mondo (terzo, dopo Inghilterra e Francia, prima di

essere invaso).

E non c’era la “burocrazia borbonica”, intesa quale caotica

e inefficiente:

lo specialista inviato da Cavour nelle Due

Sicilie, per rimettervi ordine, riferì di un «mirabile

organismo finanziario» e propose di copiarla, in una

relazione che è «una lode sincera e continua».

Mentre «il modello che presiede alla nostra

amministrazione», dal 1861, «è quello franco-napoleonico, la

cui versione sabauda è stata modulata dall’unità in avanti in

adesione a una miriade di pressioni localistiche e

corporative»

(Marco Meriggi, Breve storia dell’Italia settentrionale).

Ignoravo che lo stato unitario tassò ferocemente i milioni

di disperati meridionali che emigravano in America, per

assistere economicamente gli armatori delle navi che li

trasportavano e i settentrionali che andavano a “far la

stagione”, per qualche mese in Svizzera.

Non potevo immaginare che l’Italia unita facesse pagare

più tasse a chi stentava e moriva di malaria nelle caverne

dei Sassi di Matera, rispetto ai proprietari delle ville sul

lago di Como.

Avevo già esperienza delle ferrovie peggiori al Sud che al

Nord, ma non che, alle soglie del 2000, col resto d’Italia

percorso da treni ad alta velocità, il Mezzogiorno avesse

quasi mille chilometri di ferrovia in meno che prima della

Seconda guerra mondiale (7.958 contro 8.871), quasi sempre

ancora a binario unico e con gran parte della rete non

elettrificata.

Come potevo immaginare che stessimo così male, nell’inferno

dei Borbone, che per obbligarci a entrare nel paradiso

portatoci dai piemontesi ci vollero orribili rappresaglie,

stragi, una dozzina di anni di combattimenti, leggi

speciali, stati d’assedio, lager?

E che, quando riuscirono a farci smettere di preferire la

morte al loro paradiso, scegliemmo piuttosto di emigrare a

milioni (e non era mai successo)?

Ignoravo che avrei dovuto studiare il francese, per

apprendere

di essere italiano:

«Le Royaume d’Italie est aujourd’hui un fait» annunciò

Cavour al Senato.

«Le Roi notre auguste Souverain prend pour lui-même et pour

ses successeurs le titre de Roi d’Italie.»

Credevo al Giosue Carducci delle Letture del Risorgimento

italiano:

«Né mai unità di nazione fu fatta per aspirazione

di più grandi e pure intelligenze, né con sacrifici di più

nobili e sante anime, né con maggior libero consentimento

di tutte le parti sane del popolo».

Affermazione riportata in apertura del libro (Il Risorgimento

italiano) distribuito gratuitamente dai Centri di Lettura e

Informazione a cura del ministero della Pubblica Istruzione

Direzione Generale per l’Educazione Popolare, dal 1964.

Il curatore, Alberto M. Ghisalberti, avverte che, «a un

secolo di distanza (…), la revisione critica operata dagli

storici possa suggerire interpretazioni diversamente meditate

(…) della più complessa realtà del “libero consentimento”

al quale si riferisce il poeta».

Chi sa, capisce;

chi non sa, continua a non capire.

17 ma

Scoprirò poi che Carducci, privatamente, scriveva:

«A Lei pare una bella cosa questa Italia?»;

tanto che, per lui, evitare di parlarne «può anche essere

opera di carità». (Storia d’Italia, Einaudi).

Io avevo sempre creduto ai libri di storia, alla leggenda

di Garibaldi.

Non sapevo nemmeno di essere meridionale, nel senso

che non avevo mai attribuito alcun valore, positivo o

negativo, al fatto di essere nato più a Sud o più a Nord di

un altro.

Mi ritenevo solo fortunato a essere nato italiano.

E fra

gl’italiani più fortunati, perché vivevo sul mare.

A mano a mano che scoprivo queste cose, ne parlavo.

Io stupito;

gli ascoltatori increduli.

Poi, io furioso;

gli ascoltatori seccati:

esagerazioni, invenzioni e, se vere, cose vecchie.

E mi accorsi che diventavo meridionale, perché, stupidamente,

maturavo orgoglio per la geografia di cui, altrettanto

stupidamente, Bossi e complici volevano che mi vergognassi.

Loro che usano “italiano” come un insulto e

abitano la parte della penisola che fu denominata “Italia”,

quando Roma riorganizzò l’impero (quella meridionale

venne chiamata “Apulia”, dal nome della mia regione.

Ma la prima “Italia” della storia fu un pezzo di Calabria

sul

Tirreno).

Si è scritto tanto sul Sud, ma non sembra sia servito a

molto, perché «ogni battaglia contro pregiudizi

universalmente

condivisi è una battaglia persa» dice Nicholas

Humphrey (Una storia della mente).

«Perché non riprendi una delle tante pubblicazioni

meridionaliste di venti, trent’anni fa, e la ristampi tale e

quale?

Chi si accorgerebbe che del tempo è passato, inutilmente?»

suggeriva ottant’anni fa a Piero Gobetti, Tommaso Fiore che

poi, per fortuna, scrisse Un popolo di formiche.

E oggi, un economista indomito, Gianfranco Viesti (Abolire

il Mezzogiorno), allarga le braccia:

«Parlare di Mezzogiorno significa parlare del già detto, e

del già fallito».

Perché tale stato di cose è utile alla parte più forte del

paese, anche se si presenta con due nomi diversi:

“Questione meridionale”, ovvero dell’aspirazione del Sud a

uscire dalla subalternità impostagli;

e “Questione settentrionale”, di recente conio, ovvero della

volontà del Nord di mantenere la subalternità del Sud e il

redditizio vantaggio di potere conquistato con le armi e una

legislazione squilibrata.

Dopo centocinquant’anni, questo sistema rischia di spezzare

il paese.

Si sa;

e si finge di non saperlo, perché troppi sono gl’interessi

che se ne nutrono.

Così, accade che la verità venga scritta, ma non sia letta;

e se letta, non creduta;

e se creduta, non presa in considerazione;

e se presa in considerazione, non tanto da cambiare

i comportamenti, da indurre ad agire “di conseguenza”.

I meridionali si lamentano sempre e i carcerati si dicono

tutti innocenti.

Il paragone non è casuale;

nel bel libro Sull’identità meridionale, Mario Alcaro

scrive: «Si può dire che è la difesa di un imputato, di un

cittadino del Sud che cerca una risposta alle tante critiche

e accuse che gli son piovute addosso».

Il pregiudizio (pre, “prima”) è una condanna senza processo.

Sospetto che la sua persistenza eviti,

a chi lo nutre, un’ammissione di colpa.

«L’uomo è un animale mosso in modo determinante dalla colpa»

rammenta Luigi Zoja in Storia dell’arroganza.

«Un sentimento di colpa può essere spostato, non cancellato.»

E il Nord aggressore incolpa l’aggredito delle conseguenze

dell’aggressione:

rimosso il rimorso, se mai c’è stato.

Noi meridionali conosciamo bene tutto questo:

non ci indigna nemmeno più;

ci stanca:

«Senti che la gente ti capisce male, che devi parlare più

forte, gridare» spiegava Cˇechov.

«E le grida sono ripugnanti.

Parli a voce sempre più bassa, forse tra poco tacerai del

tutto.»

Fra le urla dell’altro, ormai privo del freno della vergogna

che lo rendeva civile.

Oggi, nuovi fermenti animano una ricerca di verità storica,

non solo meridionale, che viene dal basso, più che dalle

aule universitarie o dalla politica, dalle istituzioni.

Non è facile capire dove questo possa portare;

se a un revanscismo uguale e opposto al razzismo nordista di

Lega e collaterali, o a una comune crescita di consapevolezza

e conoscenza:

un nuovo meridionalismo non solo meridionale (e sarebbe

un ritorno alle origini, perché nacque nordico, specie

lombardo), per ridare un’anima decente a un’Italia che l’ha

smarrita, nel fallimento della politica e la sua riduzione a

furia predatoria di egoismi personali e territoriali.

Temo, per il pessimismo della ragione e perché i segni vanno

in quella direzione, che il peggio prevalga, proprio “per” e

non “nonostante” i suoi difetti (è la legge di Greg e Galton,

che ricordo in Elogio dell’imbecille).

Ma, per l’ottimismo della volontà, spero nel contrario

(nemmeno il peggio dura per sempre;

e anche i peggiori muoiono)”.

.

Tratto dal libro “Terroni” di Pino Aprile

.

Lo Stato italiano è stato una feroce dittatura che ha messo a

ferro e fuoco l’Italia meridionale, squartato, fucilato,

seppellito vivi poveri contadini che scrittori salariati

hanno infamato col marchio di briganti

(A. GRAMSCI 1920 DA “ORDINE NUOVO”)

Foto: RETE

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