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RISORGIMENTO? – Di chi? Arrivano i Piemontesi e si pappano tutto – «Cari sudditi, non vi lasceranno neanche gli occhi per piangere».

fr vitt.

«Cari sudditi, non vi lasceranno neanche gli occhi per piangere». Francesco II, in un anelito di compassione, l’aveva scritto al momento di lasciare il suo regno. Era una previsione quasi ovvia. Qualcuno era già piegato sotto il tallone del conquistatore. Dopo la guerra “ufficiale” – si fa per dire – con scontri “regolari” fra borbonici e garibaldini, ne era cominciata un’altra più nascosta, ma violenta e senza esclusione di colpi.

Nelle campagne, sulle montagne, attorno alle città, la gente si ribellava ai nuovi padroni. Li avevano sentiti quando si presentavano come i campioni della libertà, quando proponevano la fine delle ingiustizie e promettevano di dividere i feudi per assegnare un pezzette di orto ai contadini. Ma poi, ancora provvisoriamente insediati, si accorsero che imponevano incomprensibili ordinamenti, che applicavano leggi importate direttamente da Torino e, soprattutto, che promuovevano una quantità di nuove tasse.

Francesco II

Francesco II

Il prezzo della guerra che il nord aveva unilateralmente dichiarato bisognava pur pagarlo e il conto toccava per intero al sud.

Senza curarsi di quel “comune sentire”, cui attribuivano — sembrava – enorme importanza, fin tanto che si trattava di chiacchiere. Senza nemmeno provare a realizzare quel buon governo per il quale avevano speso tanti proclami.

Colpirono i patrimoni delle famiglie con sistematica rapacità per ricavare denaro ovunque. Qualche volta trascurarono i potenti, specialmente se amici, ma non rinunciarono a guadagnare sulle piccole proprietà e si accanirono sulle minuscole.

Introdussero, per esempio, l’imposta sulla successione che, di per sé, è un’assurdità. Perché pagare per conservare ciò che è già tuo?

“Un padre muore e la tenera famiglia resta. Ma un ricevitore, con il feretro ancora caldo, si presenta imperterrito, rovista la casa, penetra i segreti, fa l’inventario, somma il valore dell’eredità, calcola il diritto del fisco ch’egli rappresenta e i lacrimanti figli con la derelitta vedova pagano una somma gravissima. E i pupilli perdono ciò che il genitore, con sacrificio e privazioni, aveva creato per il loro decoro4”.

Lo scrisse un nordista, con accenti che parrebbero compassionevoli: il conte

Alessandro Bianco di Saint Jorioz.

Alessandro Bianco di Saint Jorioz.

Peccato che la sua riflessione sia maturata troppo in là negli anni, nel 1876, al momento in cui tutto era irrimediabilmente finito e il sud era già diventato “la questione meridionale”.

Prima, quando faceva parte dello stato maggiore dell’esercito, con qualche possibilità di farsi sentire e mitigare – se non proprio correggere – quegli atteggiamenti repressivi, lasciò che la burocrazia facesse il suo corso.

Si domandava Bianco di Jorioz: «Perché quella famiglia, rovinata negli affetti e depredata nel patrimonio, avrebbe dovuto essere grata al Savoia che aveva scacciato il Borbone?».

Già… perché? E, infatti, quelle famiglie – altro che grate – consideravano il nuovo regime come un pericolo da cui difendersi. Era ovvio pensare di essere caduti dalla padella nella brace e, dovendo schematizzare, ritenere che si stava meglio quando si stava peggio.

Gli stessi piemontesi se ne resero conto. Giacomo Filippo Lacaita, dalle Puglie, scrisse al presidente del Consiglio Cavour per informarlo che «i fautori del partito dell’annessione erano, ormai, una minoranza». Carlo Farini, in Parlamento, se ne uscì con un commento che la diceva lunga: «Su sette milioni di abitanti non arrivavano a cento quanti credessero nell’Unità».

Cavour

Cavour

«L’incursione del nord»  è il parere di Denis Mack Smith «sembrava una nuova invasione barbarica e l’avversione al Piemonte ricordava l’antipatia con cui molti tedeschi del sud guardavano ai prussiani del nord.» E lo storico Pasquale Villari ebbe modo di riflettere:

“La nuova classe politica non aveva nessuna esperienza amministrativa e nessuna conoscenza del Meridione, per cui i meriti patriottici (più spesso presunti) furono considerati sostitutivi delle capacità professionali. Le varie oligarchie regionali furono sostituite da famiglie rivali che erano state più rapide a cambiare casacca. E questo spiega perché, insieme ad alcuni avventurieri e disonesti, un numero spaventoso di imbecilli abbia invaso le nuove province del Regno”.

Dopo l’assalto di Garibaldi alle difese belliche di “Franceschiello”, se ne realizzò un secondo, prodotto dalla sedicente democrazia piemontese, agli uffici pubblici. Gli invasori occuparono tutto – ma proprio tutto – come se volessero confiscare le istituzioni dello stato per farne “cosa loro”.

Un volonteroso capitano di Torino diventò un generale pedante a Reggio Calabria. Un discreto maestro settentrionale si trasformò in un pessimo direttore didattico in una circoscrizione del sud. Un giudice coscienzioso della capitale sabauda si trasformò in un arrogante procuratore di una regione meridionale. Il capo sezione divenne capo ripartizione e il capo divisione diventò prefetto.

Col Pietro Fumel

Col Pietro Fumel

Ferrari, colonnello di stato maggiore, era cuciniere del duca di Modena. Il generale Pietro Fumel era un doganiere. Il colonnello Cattabena aveva fatto fortuna come tenutario di una casa da gioco. E un cassiere della spedizione dei Mille, Agostino Bertani, da sottufficiale addetto ai servizi di sanità, si ritrovò colonnello: quando doveva lavorare per vivere, chiedeva il compenso di una lira e mezza per ogni visita medica ma, un anno dopo, era nelle condizioni di vivere di rendita con una fortuna stimata in 14 milioni di lire.

Agostino-Bertani

Agostino-Bertani

Ognuno venne sbalzato dalla piccola barca del tranquillo e ordinato Piemonte sulla grande nave Italia che, per di più, si trovava a manovrare in cattive acque.

Il Piemonte peggiorò se stesso e trascinò nel baratro l’Italia. La legge della prevalenza del cretino (secondo la quale è facile che ognuno occupi il primo posto gerarchico per il quale è inadeguato e da lì cominci a fare danni) trovò un’occasione per essere applicata su larga scala è, quasi, scientificamente.

Il malcontento era avvertibile a pelle. Anche i liberali più motivati si sentivano irritati per la perdita dei loro usi amministrativi e giudiziari. Anche loro avevano creduto alle promesse dei piemontesi che li avevano rassicurati sull’opportunità di instaurare un autogoverno a macchia di leopardo, in modo da realizzare una specie di Italia federale. Ma, quando venne il momento di decidere in materia di decentramento dei poteri e di deleghe politiche, le soluzioni si indirizzarono verso tutt’altra direzione. La nuova legislazione peggiorava le condizioni dei cittadini: meglio gli austriaci nel Lombardo-Veneto, meglio il granduca a Firenze, meglio i papalini in Romagna e meglio – molto meglio – Franceschiello a Napoli.

Poche settimane dopo la proclamazione dell’Unità  d’Italia, il duca di Maddaloni si lamentò con passione:

“Ai mercanti piemontesi si danno le forniture più lucrose. I burocrati del nord occupano quasi tutti i posti pubblici, gente spesso ben più corrotta degli antichi burocrati napoletani. A fabbricare le ferrovie si mandano operai piemontesi i quali, oltraggiosamente, pagansi il doppio dei napoletani. A facchini di dogana, a carcerieri, a birri vengono uomini dal Piemonte e donne piemontesi si prendono a nutrici all’ospizio quasi che neppure il latte di questo popolo sia salutevole. È unione questa?”

Fucilazione-di-Vincenzo-Petruzziello

Fucilazione-di-Vincenzo-Petruzziello

La vantata campagna di liberazione si era rivelata per quello che era: un’occupazione. Degli invasori, i nuovi padroni ebbero gli atteggiamenti, la iattanza, il disprezzo e la supponenza. I ricchi furono nelle condizioni di aumentare le loro ricchezze e i poveri – se possibile – si ritrovarono più poveri.

La grande speranza stava partorendo il topolino. La rivoluzione  – come diceva il principe di Salina ne “Il Gattopardo” – era stata realizzata in modo che «cambiando ogni cosa, restasse tutto come prima». In realtà: peggio di prima.

«Questo popolo del sud, nel 1859, era vestito, calzato, industre, con riserve economiche.»

La penna del conte di Jorioz non era affatto indulgente nei confronti dei meridionali

che considerava «nati in Italia ma appartenenti alle tribù dell’Africa come i Noveri, i Dinkas o i Pulo-Penango». Per questo, le sue osservazioni hanno maggiore valore.

«Il contadino possedeva una moneta: comprava e vendeva animali, corrispondeva gli affìtti, alimentava la famiglia, viveva contento del proprio stato materiale.»

Dati alla mano. «Le civaie furono trovate al prezzo di 2.80 ma nel 1863 erano già salite a 5.20. La carne di bue vendevasi a 15 grana il rotolo e nel 1863 a grana 36. Una gallina salì da 20 a 55 grana10.»

Il governo appena instaurato non si curò dell’economia, non promosse l’industria, non favorì l’agricoltura e non procurò lavoro. Per l’immediato dispose lo stato d’assedio per assicurarsi obbedienza sollecita. Ed era bene che la felicità fosse anche esteticamente visibile. Occorreva celebrare messe per il nuovo re, cantargli il Te Deum e tributargli onori e riconoscimenti.

Per chi si opponeva: la galera, e chi protestava più vivacemente (o, soltanto, sembrava averne voglia) finiva direttamente davanti al plotone d’esecuzione.

Da “MALEDETTI SAVOIA – SAVOIA BENEDETTI” di L. Del Boca ed E. F. di Savoia

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