Arrivano i Normanni e comincia la latinizzazione del rito religioso. Per i monaci italo greci è la fine

Il Papa Niccolò II, durante il primo Concilio di Melfi, nomina Roberto il Guiscardo, Duca di Puglia e Calabria.

 

Debellato il pericolo saraceno e conquistata definitivamente la Sicilia, sulla scia dei progetti organizzativi già delineati dal fratello, il gran conte Ruggero proseguì anche in Calabria l’opera di introduzione del modello feudale normanno, definito appunto «feudalesimo di importazione» da Mare Bloch, e «la cui ragion d’essere – ha giustamente notato Giuseppe Galasso – stava essenzialmente […] nella volontà, nelle propensioni e negli interessi dei nuovi venuti». Il feudalesimo era un sistema di organizzazione generale della società fondato su un rapporto bilaterale tra il sovrano, che concedeva un territorio – appunto il feudo – e i suoi uomini di fiducia, detti vassalli, che in cambio della concessione gli rendevano omaggio facendo atto di sottomissione (vassallaggio) e si impegnavano alla prestazione del servizio militare, proporzionato al valore del feudo ricevuto, e di contribuzioni in denaro in alcune circostanze prestabilite.

All’interno del feudo, il vassallo, in qualità di delegato locale del potere regio, acquisiva una serie di privilegi – le immunità – di carattere militare, giudiziario e fiscale, come l’arruolamento di soldati, l’esercizio della giustizia e l’imposizione di tributi. I vassalli, che erano i grandi feudatari, avevano la facoltà di dare in concessione parte del feudo a loro fedeli, i valvassori, che potevano procedere a loro volta ad ulteriori subinfeudazioni.

Roberto il Guiscardo e Ruggero I di Sicilia

Gran parte del territorio calabrese fu ripartito dagli Altavilla in numerosi feudi di diversa entità, concessi a cavalieri normanni, tra cui gli stessi nipoti di Ruggero, Abelardo ed Ermanno, ai quali fu assegnata Santa Severina, gli Arenga, signori di Castrovillari, passata poi a Guglielmo di Grantmesnil, possessore anche di Brahalla (I’attuale Altomonte), Oriolo e Rossano, e Ugo di Falloc, che ebbe la contea di Catanzaro.

Accanto ai feudatari laici un posto importante occuparono in Calabria i feudatari ecclesiastici, verso cui i fratelli Altavilla furono prodighi di concessioni. Come quelli laici, anche i maggiori signori ecclesiastici erano normanni e qualcuno di loro era legato agli Altavilla da vincoli di parentela. Fu questo il caso di Roberto di Grantmesnil, che fu il primo abate dell’abbazia benedettina di S. Maria di S. Eufemia, fondata nella Piana lametina nel 1062. Un’altra grande abbazia assegnata a un monaco transalpino fu la Certosa di S. Stefano del Bosco, nelle Serre, tra Stilo e Arena, fondata nel 1091 e dotata di un vasto territorio da Ruggero, che la concesse insieme con i villani di Montauro, Arungo, Gasperina e Olviano a Bruno di Colonia, il quale accettò di reggere questo cenobio dopo avere rinunciato all’arcivescovado di Reggio.

Certosa di Santo Stefano del Bosco

Importanti centri monastici di rito latino sorsero in altre zone calabresi. A Mileto nel 1058 fu fondata l’abbazia della SS. Trinità appartenente all’ordine benedettino. Nel 1060, vicino al fiume Crotalo sorse l’abbazia cistercense di S. Maria di Corazzo e alcuni anni più tardi, nel cuore dell’Aspromonte, fu edificata la chiesa di S. Maria di Polsi, che sarebbe diventata uno dei maggiori santuari mariani del Mezzogiorno.

Dai cenobi principali, denominati appunto abbazie madri, dipendevano poi una serie di centri religiosi minori, le cosiddette grange, disseminate sul territorio, attorno a cui spesso sorgevano dei centri abitati. I nuovi enti religiosi, dotati di ampie proprietà terriere,  attraverso il dissodamento e la messa a coltura da parte dei coloni di crescenti porzioni delle stesse, se da un lato svolsero un ruolo molto proficuo nella valorizzazione fondiaria, dall’altro esercitarono una forte capacità di attrazione di insediamenti umani in aree fino ad allora pressoché spopolate.

La fondazione di nuove abbazie si inseriva nel processo di latinizzazione del rito religioso, al quale il Guiscardo si era solennemente impegnato in occasione dell’investitura papale del 1059.

Si era venuta tuttavia a determinare ben presto una convergenza di interessi tra il Papato e gli Altavilla. Se l’obiettivo del pontefice era il ritorno sotto la giurisdizione di Roma delle diocesi divenute greche e sottoposte al patriarcato di Costantinopoli durante la dominazione bizantina, Roberto e Ruggero, a loro volta, attraverso la latinizzazione delle strutture ecclesiastiche miravano a ottenere il sostegno di prelati e abati latini nello sforzo di affermazione del loro predominio politico in una regione dove largamente diffusa era l’impronta bizantina.

Un problema rilevante che però i Normanni dovettero affrontare in Calabria nel corso della latinizzazione del rito religioso fu quello del forte ascendente che avevano sulla popolazione locale i basiliani, cioè i monaci di rito greco. Fu pertanto necessario procedere con cautela e gradualità nella trasformazione del rito. Un atteggiamento prudente fu quindi tenuto dal Guiscardo e dal fratello Ruggero nei confronti dell’ordine monastico basiliano, che si cercò da un lato di legare al nuovo regime politico mediante la concessione di prebende e privilegi e, dall’altro, di farlo rientrare sotto l’influenza della Chiesa romana. Si evitò, salvo qualche eccezione, di sostituire in modo brusco i vescovi greci con nuovi prelati latini ma si provvide a fare eleggere questi ultimi nelle sedi diocesane vacanti, in modo da assicurare comunque un ricambio.

Gli Altavilla portarono tuttavia avanti con costanza l’opera di latinizzazione delle sedi vescovili calabresi. Nel 1060, alla diocesi di Reggio, sede metropolitana calabrese insieme con S. Severina, venne preposto un arcivescovo di rito latino. Nel medesimo lasso di tempo, la diocesi di Cosenza fu latinizzata ed elevata ad arcivescovado. Una nuova sede episcopale, assegnata a un presule latino, fu istituita a Mileto nel 1080 in sostituzione della soppressa diocesi di Vibona. Nel 1094, vescovi latini furono messi alla guida delle diocesi di Tropea e Nicastro; lo stesso avvicendamento avvenne nel 1130 a Umbriatico e nel 1149 a Isola.

Santa Maria di Polsi

Il sistema feudale, apparso inizialmente instabile, come denota la ribellione di alcuni signori, si consolidò sotto il successore di Ruggero, il figlio Ruggero II, che nel 1130 ottenne la corona del Regno di Sicilia – – termine con il quale si indicava allora l’intero Meridione d’Italia – trasmessa nel 1154 al figlio Guglielmo I il Malo e infine nel 1166 passata da questi al figlio minorenne Guglielmo II il Buono, alla cui morte, nel 1189, si sarebbe estinta la discendenza diretta della dinastia degli Altavilla.

Alla fondazione del Regno di Sicilia fece seguito un riordinamento amministrativo finalizzato a bilanciare il particolarismo feudale attraverso l’istituzione di organi giurisdizionali dipendenti direttamente dal potere regio.

Il Regno fu diviso in undici circoscrizioni amministrative, dette giustizierati, a ciascuna delle quali era preposto un «giustiziere», funzionario di nomina regia che sovrintendeva all’amministrazione della giustizia e al controllo dell’ordine pubblico. La Calabria fu ripartita nei due giustizierati di Val di Crati e Terra Giordana – corrispondenti grosso modo alle attuali province di Cosenza e Crotone e a parte di quella di Catanzaro – e di Calabria, propriamente detta, comprendente  la parte meridionale della regione. Sotto il Regno di  Guglielmo I fu istituita la Dogana, ufficio centrale per la gestione fiscale, suddivisa in due circoscrizioni, la Dogana «baronum», con giurisdizione sulla parte settentrionale del Regno e alla quale fu aggregata la Calabria a nord del fiume Sinni, e la Dogana «de secretis», alla quale erano soggette la Calabria meridionale e la Sicilia.

Al fine di rendere più efficiente l’organizzazione feudale e più stretti i vincoli di subordinazione dei vassalli, con un’ordinanza del 1114 Ruggero II sottopose a revisione i privilegi precedentemente concessi ai feudatari. Era infatti «dalle gerarchle feudali e dalle fedeltà vassallatiche [che] la monarchia traeva […] la propria forza e soprattutto il cemento autentico, in campagna e in città, con le leve locali del potere». Se dal punto di vista del sovrano la revisione dei privilegi signorili si proponeva di normalizzare i rapporti tra monarchia e feudalità, dal punto di vista baronale tale regolamentazione serviva a garantire i diritti dei feudatari mediante la definizione precisa dei confini dei feudi e della quantità delle persone che vi abitavano. La funzione militare del baronaggio, che era il gruppo dirigente fondamentale del Regno, era resa possibile dal possesso della terra e del connesso corredo dei villani – contadini viventi in condizione servile – degli animali da lavoro e degli attrezzi agricoli.

Sul feudo erano imperniate le attività agricole, in cui era impegnata la stragrande maggioranza della popolazione calabrese. Ai signori feudali spettava il diritto di riscuotere una parte della produzione fondiaria e delle stesse entrate dei contadini, costretti a pesanti prestazioni come la corresponsione di canoni e doni in natura, censi in denaro e giornate lavorative gratuite nei terreni gestiti direttamente dal signore.

Sotto il profilo giuridico, gli appartenenti al ceto rurale, vincolati alla terra coltivata, erano soggetti a dipendenza personale e non godevano perciò della piena libertà.

La sicurezza e la stabilità, legate alla fondazione della monarchia, contribuirono notevolmente anche in Calabria alla diffusione degli insediamenti e all’ampliamento e diversificazione delle colture, soprattutto in prossimità dei centri abitati. Dai documenti del tempo risulta infatti, oltre a un cospicuo aumento delle superfici cerealicole – favorito dalle scelte agronomiche dei feudatari laici ed ecclesiastici e strettamente connesso alla forte spinta demografica del secolo XI – una diffusa coltivazione di piante pregiate, come viti, gelsi, olivi e canne da zucchero. All’aumento del volume della produzione non sembra però fosse «corrisposto – è stato evidenziato da Tramontana – un aumento generale della produttività che, a causa dell’irrazionale utilizzazione del suolo non andava al di là, per il frumento, di una resa media di cinque volte le sementi. E del resto non si hanno notizie, per il Regnum di quelle innovazioni tecniche che, come l’aratro a versoio, erano in quegli anni già in uso in altre aree geografiche».

 

Da “La Calabria, dai Normanni ai Savoia”, di G. Caridi, Falzea Editore

 

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