I pregiudizi contro le genti del Sud

Pregiudizio di tipo biologico/razziale:

è stato il pregiudizio più in voga tra l’800 e il ‘900. In un’epoca caratterizzata da esasperati nazionalismi e da un aggressivo colonialismo il pregiudizio di tipo biologico/razziale è finito spesso e volentieri per sfociare in aperto razzismo. Dal celebre “fardello dell’uomo bianco” fino al “Manifesto della Razza”(40) gli anni tra I’800 e la prima metà del ‘900 furono pieni di queste teorie. Abbiamo parlato dell’antropologia criminale di Lombroso o del libro “The Races of Europe” di Ripley. Tutte teorie che servirono a “classificare” le varie popolazioni. Spesso e volentieri con solamente motivazioni di ordine politico (ed economico) alle spalle. Sono teorie da lungo tempo confutate, ma che in passato erano accademicamente accettate, tanto da essere addirittura studiate nelle Università. L’impatto di queste teorie dura ancora oggi. Basti pensare al mondo che ruota attorno al suprematismo bianco negli USA o alla destra neo-nazista nei paesi dell’Est Europa.

In Italia esso è servito prima per giustificare la guerra al brigantaggio, mostrata all’opinione pubblica alla stregua di una “civilizzazione del Sud” e in seguito per giustificare l’esistenza delle Mafie. È un tipo di pregiudizio molto diretto, che non fa mistero nel voler distinguere un “noi” positivo e un “loro” negativo.

“Tanto la sociologia quanto l’antropologia di impostazione evoluzionistica contribuirono ad affermare l’idea di una gerarchia delle razze e l’immagine del selvaggio come arretrato ed inferiore. […] la convinzione che lo stato di arretratezza dei selvaggi fosse dovuto ad una loro sostanziale inferiorità nelle capacità mentali più alte.(41)

Ma è proprio il fatto di essere un pregiudizio “alla luce del sole”, con la pretesa di basarsi su caratteri evidenti, che ha fatto sì che storicamente fosse il primo ad essere confutato. È bastato dimostrare l’infondatezza della divisione dell’umanità in razze per far sì che divenisse inutile anche la loro classificazione. Per il semplice motivo che non c’era nessuna classifica da fare. E così se nell’800 era pratica comune, come abbiamo visto nel caso dell’immigrazione americana, dividere gli italiani in due razze, adesso queste teoria sono ampiamente smentite e ridicolizzate, e la loro difesa è lasciata solo a pochi sparuti studiosi ai margini della comunità scientifica.

Pregiudizio di tipo economico/politico:

si basa sull’assunto che storicamente i gruppi discriminati appartengono a classi sociali subalterne che non hanno accesso al potere politico ed economico del paese. In questo caso l’esempio degli Stati Uniti (al netto di qualche cambiamento recente come Obama) è lampante. Storicamente il paese, pur essendo nominalmente una democrazia avanzata, ha visto sempre la predominanza del gruppo WASP (White, Anglo-Saxon, Protestant). Sono gli appartenenti a questa categoria ad avere da secoli nelle loro mani la gran parte del potere politico ed economico del paese. Basterebbe d’altronde guardare con occhio meno agiografico alla nascita degli USA per notare come la quasi totalità dei leader della Guerra d’Indipendenza fossero bianchi, protestanti e possessori di schiavi. Il primo presidente degli Stati Uniti George Washinghton possedeva ben 316 schiavi.(42) Successivamente in America il pregiudizio, che spesso e volentieri si trasformava in aperto razzismo, iniziò a colpire anche i nuovi immigrati, come gli irlandesi e gli italiani. Oggi è invece diretto nei confronti dei messicani, dei portoricani, dei giamaicani. Tutte popolazioni che hanno una cosa in comune: il trovarsi, in determinati momenti storici, nella parte bassa della piramide sociale.

In Italia il discorso è un po’ più complesso. Nel nostro esempio, quello che riguarda i meridionali, è interessante notare come alcuni meridionali, che negli anni ’60 occupavano il gradino più basso della piramide sociale italiana (parliamo del periodo della grande migrazione interna), sono col tempo diventati parte della leadership economico-politica. Tanto è vero che si sprecano gli esempi di meridionali emigrati al Nord che sono arrivati ai vertici dello stato italiano o dell’economia del paese. È vero che l’Italia unita fu fatta per volontà ed interessi di una classe specifica, la borghesia  del Nord-Ovest, ma è anche vero che, esclusi alcuni periodi, come subito dopo l’Unità o negli anni ’60, ai meridionali non sono mai state precluse in modo marcato e diretto possibilità di carriera per il solo fatto di essere meridionali, cioè di essere nati al Sud o di essere nati da genitori del Sud.

  • Dobbiamo però sottolineare, ed è estremamente importante farlo, due cose: la discriminazione avviene comunque in modo indiretto, impedendo non tanto ai meridionali di fare carriera quanto piuttosto non creando opportunità affinché i meridionali possano fare carriera, (ad esempio con meno fondi per le imprese, con meno agevolazioni, meno investimenti infrastrutturali).
  • E, secondo punto, la “carriera” del meridionale poi avviene quasi esclusivamente a patto di aderire a modelli comportamentali “da settentrionale”, ed ecco che ci ricolleghiamo al discorso del pregiudizio culturale.

Bisogna quindi capire che, tenendo sempre presenti le disparità economiche che ancora oggi dividono l’Italia, e nonostante lo Stato faccia poco o nulla per diminuirle, il pregiudizio nei confronti degli “ultimi” è un qualcosa di complesso, che nel caso dei meridionali può essere spiegato solo collegandolo anche al pregiudizio culturale.

In parole povere, per chiarire il concetto, si potrebbe dire che l’unica possibilità per un meridionale di “fare carriera”, in un contesto in cui gli vengono precluse indirettamente le possibilità di farla, è comportarsi “da settentrionale”.

Pregiudizio di tipo linguistico:

più sottile, ma utile per capire il pregiudizio nei confronti dei meridionali, è il pregiudizio di tipo linguistico. Dato ormai per assodato il fatto che l’Italia più che un paese con una sola lingua è un paese con una miriade di lingue, lingue regionali e dialetti, bisogna guardare al fatto che, storicamente, alcune di queste lingue hanno finito per assumere una caratterizzazione positiva, mentre altre una caratterizzazione negativa. Su questo versante i media hanno giocato un ruolo quasi fondamentale, propagando la stereotipizzazione di alcuni individui e delle loro relative parlate. Rappresentando, ad esempio nel cinema, il truffatore con l’accento quasi sempre napoletano hanno finito per creare nella gente l’associazione involontaria tra la truffa, la parlata napoletana e il napoletano. Così come, associando l’accento milanese all’imprenditore benestante, e contemporaneamente facendo nel medio-borghese settentrionale il “modello” di italiano-tipo, hanno finito per dare al milanese dignità positiva.

Naturale quindi che quello linguistico diventa un tipo di pregiudizio all’apparenza innocuo, ma che riesce ad agire in maniera inconscia. La lingua d’altronde può essere vista come una delle principali categorie attraverso la quale noi distinguiamo il “noi” dal “loro”, una forma concreta e specifica di una determinata comunità(43). Uno dei modi più semplici per definire e circoscrivere  una comunità è proprio la lingua, così come essa diventa il modo più veloce e semplice per distinguere il diverso.

Non è un caso che uno degli argomenti più in voga tra gli ambienti nazionalisti di destra è proprio il “se vogliono stare in Italia devono imparare l’italiano”.(44) Così in Italia, di fronte al venir meno dei presupposti biologici, il pregiudizio si è potuto sviluppare attraverso la categoria della lingua, ma anche e soprattutto attraverso quella della cultura.

Pregiudizio culturale:

l’ultimo, ma quasi certamente il più preponderante in Italia, è il pregiudizio dal punto di vista culturale. In un mondo che ormai rifiuta e condanna apertamente, almeno a parole, il razzismo e il pregiudizio, nonostante le lampanti contraddizioni in essere nelle società neoliberiste (dove è socialmente sbagliato utilizzare la parola “negro”, ma dove non si fa nulla per impedire, ma lo si incoraggia, il caporalato nei campi o lo sfruttamento da parte delle multinazionali nei paesi del terzo mondo), il vecchio pregiudizio di stampo biologico ha ormai lasciato il posto ad un pregiudizio su base culturale.

“Un neorazzismo che non teme più l’ibridazione tra le razze, ma fa capo agli stessi argomenti prodotti dall’antirazzismo. […] Si tratta di un razzismo particolarmente temibile, perché aggira e utilizza il consenso ormai consolidato per il rifiuto del razzismo. E’ un razzismo che teme il contatto tra le culture, il rischio della loro inconciliabilità.”(45)

Gli argomenti centrali non sono più i tratti somatici o la dimensione del cranio, ma usi e costumi. Anche in Italia quindi, quello che prima era un pregiudizio basato sulle tesi di Lombroso, si trasforma in un pregiudizio che fa leva su altri argomenti, come il familismo amorale, la poca etica del lavoro, la poca predisposizione al rischio imprenditoriale.

Per distinguere meridionali e settentrionali e creare le categorie di “noi” e “loro”, dove il “noi” è positivo e il “loro” è negativo, non si fa più riferimento alla diversità razziale, in quanto l’esistenza della stessa è stata confutata da tempo, bensì alle differenze culturali. È un aspetto per certi versi simile a quello linguistico, solo che mentre nel pregiudizio linguistico la caratterizzazione positiva e/o negativa è un fatto totalmente arbitrario (non esistono lingue belle e lingue brutte), nel pregiudizio culturale si assiste alla “elevazione a modello di comportamento” di alcune caratteristiche dalla cultura del “noi” e alla condanna delle caratteristiche della cultura del “loro”. E laddove il comportamento tra due culture risulta simile ecco che artificialmente si crea una distinzione.

Pensiamo alla cosiddetta “arte di arrangiarsi”. Per decenni la napoletanità è stata associata ad essa, con un atteggiamento che passa dal goliardico al negativo. Ma la stessa “arte di arrangiarsi” se espressa al Nord viene fatta passare come “spirito imprenditoriale”. Eppure si tratta in estrema sintesi della stessa cosa: fare molto con poco a disposizione.

Pensiamo poi a come per decenni giornali e televisioni abbiano ripetuto la storiella di un Sud omertoso e connivente, salvo poi accorgersi, non senza un po’ di stupore, che i fenomeni criminali di stampo mafioso si verificavano, con modi diversi ma con la stessa frequenza, anche al Nord. Ma qui l’omertà, descritta come tipicamente meridionale, si è trasformata in “paura” da parte del settentrionale. Lo stesso gesto, il non denunciare, a certe latitudini veniva presentato come connivenza col potere mafioso, ad altre invece come legittima reazione timorosa delle conseguenze.

È stata quindi creata, anche dove non c’era, una spaccatura culturale artificiale nella quale il pregiudizio è potuto proliferare indisturbato. Il continuo rimarcare aspetti positivi della cultura settentrionale e la contemporanea denigrazione di quelli della cultura meridionale ha fatto sì che divenisse normale e accettato associare termini con valenza negativa al meridione e termini con valenza positiva al settentrione.

Vale la pena ricordare come il pregiudizio in realtà difficilmente poggia su basi oggettive, ma è piuttosto una conseguenza di un determinato clima socio-politico che fa sì che alcuni vengano percepiti “migliori”, mentre altri vengano percepiti “peggiori”.

In estrema sintesi è un pregiudizio totalmente “moderno” in quanto non inficia i dettami del politically correct, come l’uguaglianza formale, ma permette di sfruttare le sue debolezze, come la mancanza di uguaglianza sostanziale. Ed è proprio sul pregiudizio di tipo culturale, versatile e camaleontico, ideale per tutte le stagioni e per tutte le mode, che i mezzi di comunicazione italiani hanno potuto continuare a diffondere il pregiudizio nei confronti dei meridionali. […]

Da LE DUE ITALIE NEI MEDIA, DI g. Di Stadio, Amazon

 

NOTE

40 Promulgato nel 1938 e rimasto in vigore, prima nel Regno d’Italia e poi nella Repubblica Sociale Italiana, fino al termine della seconda guerra mondiale.

41 Mazzara, op.cit., p.35

42 F. Hirschfeld, George Washington and Slauery, University of Missourì Press, 1997, p, 11

43 G. Graffi e S. Scalise, Le lingue e il linguaggio. Introduzione alla linguistica, II Mulino, Bologna, 2002 , p.24

44 A. Scarano, Gli immigrati non vogliono imparare l’italiano: ci interessa il francese, in “II Giornale”, 25/08/2015

45 Binotto, op.cit, p.46

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