Quante cose racconta il calendario

Giulio Cesare

Immaginatevi un serpente circolare che si morde la coda: è il simbolo dell’anno che perpetuamente si rinnova mangiando la propria coda, ovvero l’anno vecchio. La sua circolarità d’altronde è implicita nell’etimo del nome latino, annus: secondo Gaio Ateio Capitone gli antichi Romani solevano usare la particella an per circum – intorno – (1), come è testimoniato anche da un passo delle Origines di Catone dove si dice: «aratur an terminum» ovvero «si ari intorno al confine» (2). Da an è derivato anche l’arcaico annus con il significato di circolo, e annulus, l’anello.


Horus bambino, il Sole nascente circondato dal serpente Mehen nel Papiro di Dama-Heroub

Annus è dunque l’anello del tempo, il moto circolare del tempo che d’altronde non è soltanto un’immagine poiché la terra gira realmente intorno al sole o, se volete, dal punto di vista di chi vive sul nostro pianeta, il sole intorno alla terra.

Dove-quando il serpente si morde la coda?

Oggi nei paesi occidentali la rigenerazione si compie alla mezzanotte del 1° gennaio; ma in altre parti del mondo l’anno comincia in una data diversa o per un’antica tradizione o perché l’inizio è mobile, come nei paesi di religione musulmana dove il tempo è misurato sulle lunazioni partendo dal 16 luglio del 622 d.C., giorno dell’Egira, ovvero della fuga di Maometto dalla Mecca. Vi sono anche popoli che adottano un calendario lunisolare, cioè hanno mesi lunari cui aggiungono periodicamente alcuni giorni: gli ebrei per esempio hanno un calendario lunare con dodici mesi di 29 o 30 giorni, cui aggiungono ogni tre anni un mese supplementare fra adar e nisan; e chiamano l’anno con 13 mesi embolismico.

D’altronde, anche in Italia si è giunti al 1° gennaio gradualmente.

Nella Roma arcaica, come testimonia il calendario attribuito a Romolo, l’anno nuovo cominciava a primavera con il mese di marzo dedicato al dio Marte, padre secondo la leggenda dei fondatori della città. Anche in altri paesi del Mediterraneo e del Vicino Oriente l’anno s’iniziava con la primavera quando il sole, dopo il semestre invernale, torna a splendere alto nel cielo e la terra si risveglia verdeggiando e fiorendo.

Ma il calendario romuleo aveva una particolarità: era composto da dieci mesi, mancavano infatti gennaio e febbraio, introdotti successivamente. Lo testimoniano, fra l’altro, i nomi del calendario attuale che ricalca quello romano riformato da Giulio Cesare, dove settembre, ottobre, novembre e dicembre non corrispondono etimologicamente alla loro collocazione perché non sono il settimo, ottavo, nono e decimo mese, ma il nono, decimo, undicesimo e dodicesimo.

Macrobio sostiene che i dieci mesi erano composti da 30 o 31 giorni per un totale di 304. Plutarco invece afferma che l’anno romuleo era di 360 giorni e i mesi venivano computati in modo irrazionale e caotico: «alcuni risultavano di 20 giorni, altri di 35, altri di più ancora». Probabilmente entrambi riportavano notizie non infondate che si riferivano tuttavia a periodi arcaici diversi.

Sino alla fine dell’Ottocento ci si interrogava su questa divisione dell’anno apparentemente inconsueta e soprattutto sulla sua origine e funzione. Nel 1903 una ipotesi di spiegazione venne da un saggio, La dimora artica dei Veda, pubblicato a Poona, in India: il suo autore, Bâl Ganghâhar Tilak (1856-1920), era uno studioso che spaziava dall’astronomia alla paleontologia, dalla filologia comparata alla matematica. Esaminando i Veda, il più antico documento scritto delle lingue indo-europee, e confrontandoli con le scoperte scientifiche moderne, dimostrò che la dimora ancestrale del popolo vedico, come di quelli iranici ed europei, doveva situarsi in qualche luogo presso il polo nord prima dell’ultima era glaciale, quando il clima in quelle zone era temperato, con estati fresche e inverni miti.

Veda

Non solo la letteratura vedica, ma anche l’Avesta iranico serba testimonianze di una vita arcaica nelle religioni polari, di una civiltà superiore a quella dell’epoca neolitica in Asia e in Europa: gli indo-europei dei primordi non erano infatti uomini delle caverne ma secondo l’analisi del Tilak, che si avvaleva della filologia comparata, sapevano filare e tessere, conoscevano bene l’arte della lavorazione dei metalli, costruivano barche e cocchi e avevano un’agricoltura progredita.

Poi con l’epoca glaciale furono costretti a emigrare verso il sud, chi in direzione dell’Asia, chi dell’Europa, per trovare un clima più sopportabile. Una delle prove che il Tilak adduce a sostegno della sua tesi riguarda proprio il calendario: i più antichi testi vedici testimoniano infatti che in epoca arcaica i sacrifici annuali si svolgevano nei dieci mesi di luce, composti da due mesi estivi, durante i quali il sole non tramontava mai, e da otto nei quali notte e giorno, di durata variabile, si alternavano. Gli altri due mesi erano invece la lunga notte delle regioni artiche a una certa latitudine, quella presumibilmente da cui sono giunti i nostri antenati.

Fra i più antichi sacrifici annuali i Veda descrivono il Gavâm-ayanam o Cammino delle Vacche, che simboleggiano gli dèi dei mesi. Una leggenda narra che le Vacche, volendo ottenere zoccoli e corna, si riunirono per sacrificare. Nel decimo mese del loro sacrificio, ottenuti zoccoli e corna, dissero: «Abbiamo avuto finalmente quel che desideravamo», e si alzarono. Ma alcune Vacche rimasero sedute per continuare i riti dicendo: «Compiamo l’anno», e caddero loro le corna per la sfiducia. Dopo aver sacrificato ancora per due mesi, si alzarono finalmente; e se non riebbero le corna, ottennero la ricompensa di una pastura ristoratrice nei mesi di pioggia durante i quali le Vacche cornute trovavano invece un impedimento a pascolare liberamente nei campi dove l’erba novella era cresciuta.

La favola allude sia al sacrificio annuale che si svolgeva originariamente in dieci mesi, sia a quello successivo quando il popolo vedico si era trasferito in regioni più meridionali.

Giustifica cioè leggendariamente la coesistenza dei due sacrifici nelle nuove terre, spiegabile con il tradizionale conservatorismo rituale che non rinuncia facilmente alle pratiche antiche anche quando, come in questo caso, non sono più giustificate dalla nuova collocazione geografica. E infatti un testo vedico commenta significativamente:

«Colui che sa questo prospera sia che sorga dal sacrificio in 10 mesi sia in 12».

Il Cammino delle Vacche in 10 mesi, argomenta il Tilak, corrisponde all’arcaico calendario romano: «Se consideriamo il Gavâm-ayanam di dieci mesi e l’antico anno romano di dieci mesi come reliquie del tempo in cui gli antenati ancestrali di ambedue le razze vissero insieme in regioni intorno al polo nord, non troviamo difficoltà a spiegare come i giorni restanti fossero sistemati. Si trattava del periodo della lunga notte, il tempo in cui Indra combatteva, secondo il mito, contro Vala per riprendere le vacche imprigionate da quest’ultimo; il tempo in cui Ercole uccideva il gigante Caco che aveva rubato i buoi di Ercole e li aveva nascosti in una caverna tirandoli per la coda in modo che le orme non lasciassero traccia».

NUMA POMPILIO.

Quando gli indo-europei migrarono a sud, dovettero mutare il calendario per adeguarsi alla nuova patria aggiungendo due mesi: così sarebbe avvenuto per i Romani che inizialmente avrebbero aggiunto ai dieci mesi i giorni mancanti per completare l’anno solare, come sostiene Plutarco; poi, più razionalmente, avrebbero creato due nuovi mesi, gennaio e febbraio, con il nuovo calendario attribuito, secondo la leggenda, a Numa Pompilio. Sicché la credenza di un calendario romuleo sostituito da quello di Numa altro non sarebbe se non la narrazione leggendaria dell’evoluzione calendariale di un popolo indo-europeo.

Secondo un’altra recente ipotesi, sostenuta da Dario Sabbatucci, il calendario  romuleo non sarebbe mai esistito. L’anno doveva cominciare nel nome di Giove garante dell’ordine cosmico, e dunque con le Idi di marzo; ma la fase iniziale, la fase critica per il «passaggio» dal vecchio al nuovo anno richiedeva l’intervento di Giano, garante di tutti gli inizi. Il periodo fra il 1° di gennaio e marzo era dunque una preparazione, anzi una «maturazione» dell’anno nuovo: quasi una lunga alba che si sarebbe conclusa con il periodo equinoziale. La tesi non è tuttavia incompatibile con quella del Tilak perché, se è vero che le popolazioni indo-europee, giunte in Italia, dovettero elaborare un nuovo calendario, trasformarono forse il periodo «notturno», di passaggio, nei due mesi che preparavano la maturazione dell’anno nuovo.

In ogni modo con la leggendaria riforma del secondo re di Roma i mesi  divennero dodici con l’aggiunta di gennaio (Januarius) e febbraio (Februarius). I dodici mesi – marzo, maggio, luglio e ottobre con 31 giorni; febbraio con 28 e gli altri con 29 componevano un anno lunare di 355 giorni, un poco più lungo di quello reale che è di 354D 8H 48M 26S.

Per completare l’anno solare (365D 5H 48M 46S, secondo i calcoli attuali) mancavano circa dieci giorni e un quarto. Ma i Romani, secondo Macrobio, commisero un errore clamoroso: ispirandosi al calendario greco, che aveva un anno lunare di 354 giorni, si convinsero di dover recuperare undici giorni e un quarto: sicché stabilirono di inserire ogni due anni alternativamente 22 o 23 giorni intercalari. Quando fu scoperto l’errore si decise di omettere periodicamente l’intercalazione, la quale era stata assegnata a febbraio come ultimo mese dell’anno prima della lunazione primaverile.

Quando cadeva l’intercalazione, si toglievano al mese di febbraio gli ultimi cinque giorni i quali, sommati ai 22 o 23 intercalari, formavano un tredicesimo mese detto intercalaris o mercedonius (compensatorio). Il compito di ordinare le intercalazioni era affidato ai pontefici i quali spesso furono accusati di accorciare o allungare gli anni per abbreviare o prolungare la durata in carica dei magistrati o degli appaltatori di imposte: sicché il calendario legale spesso non corrispondeva all’anno solare. Alla vigilia della riforma di Giulio Cesare il caos calendariale era diventato scandaloso: si pensi che, secondo i calcoli attuali, il 46 a.C. ebbe inizio in realtà il 14 ottobre del 47, ovvero 77 giorni prima.

Nel frattempo il 1° gennaio, come capodanno, stava prendendo il sopravvento su quello di marzo. Con il 153 a.C. la data di ingresso dei consoli, che era stata fissata nel 222 alle Idi di marzo (prima ancora era alle Idi di settembre), venne spostata alle Calende di gennaio che assunsero così maggiore importanza. Ma soltanto con la riforma giuliana e con l’Impero il 1° gennaio divenne l’unico Capodanno, sebbene a marzo continuassero le feste tradizionali connesse al «rinnovamento» cosmico.

Giulio Cesare

Nel 46 a.C. Giulio Cesare, avvalendosi secondo Plutarco di vari filosofi e matematici, e secondo Plinio il Vecchio dell’astronomo Sosigene, abbandonò l’anno lunisolare di Numa adottando l’anno solare degli Egizi. Aggiunse 10 giorni al calendario precedente: 2 a gennaio, agosto (che allora si chiamava Sextilis, sesto) e dicembre; 1  ad aprile, giugno, settembre e novembre.

Mancava tuttavia un quarto di giorno all’incirca per completare l’anno solare secondo i calcoli di allora. Si stabilì di recuperare le 6 ore ogni quattro anni inserendo un giorno in quel punto in cui s’inserivano anticamente i giorni intercalari del calendario di Numa: al sesto giorno prima delle Calende di marzo – il 24 febbraio odierno – che venne chiamato bisextus, due volte sesto, poiché si ripeteva. A sua volta l’anno con un giorno in più fu detto bisextilis, bisestile.

Per correggere lo sfasamento fra anno reale e anno legale – il 46, come si è ricordato, era cominciato in realtà il 14 ottobre del 47 si aggiunsero eccezionalmente 90 giorni distribuiti in 3 mesi intercalari: 1 a febbraio, 2 fra novembre e dicembre; sicché il 46 risultò di 445 giorni. Le Calende del 45 caddero conseguentemente il 2, ma la differenza fu recuperata rendendo quell’anno bisestile.

Quanto ai nomi dei mesi, vi furono due cambiamenti: nel 44 Quintilis, così chiamato perché era il quinto nell’antico calendario romuleo, divenne Julius (luglio) in onore di Giulio Cesare che era nato in quel mese; e nell’8 a.C. Sextilis divenne Augustus (agosto) in onore del primo imperatore romano, grazie a un decreto del Senato che spiegava: «Considerato che l’imperatore Cesare Augusto nel mese di sestile assunse la prima volta il consolato, entrò tre volte a Roma in trionfo, condusse dal Gianicolo le legioni che seguirono fedeli la sua causa; considerato inoltre che in questo mese l’Egitto fu ridotto in potere del popolo romano e nello stesso mese ebbero fine le guerre civili; considerato inoltre che questo mese è stato molto fortunato per l’Impero, il senato decreta che esso sia chiamato agosto».

Gregorio XIII

Sicché oggi ancora, nonostante qualche tentativo di cambiamento nel corso dei secoli, i dodici mesi dell’anno corrispondono, anche nel nome, al calendario romano in vigore agli inizi della nostra era.

L’unica differenza riguarda il mese bisestile, febbraio, che non cade più regolarmente ogni 4 anni. Questo cambiamento è dovuto all’ultima, per ora, riforma calendariale che risale al 1582. Nel calendario giuliano si era calcolata la durata dell’anno in 365 giorni e 6 ore con una differenza in più, rispetto al corso del sole (365D 5H 48M 46S, 98) di circa 11M 13S, 2. Eppure l’astronomo Tolomeo l’aveva già calcolato nel secolo II in 365, 247 giorni, avvicinandosi ai nostri calcoli.

L’eccedenza formava, ogni 128 anni, un giorno in più facendo retrocedere l’equinozio di primavera, come il solstizio invernale: si pensi che tra il 1325 e il 1350 quest’ultimo cadeva il 13 dicembre, festa di santa Lucia, e sarebbe caduto qualche giorno prima se nel 325 il concilio di Nicea non avesse già corretto empiricamente l’errore riportando il solstizio alla data canonica. Nel secolo XVI, alla vigilia della riforma gregoriana, era addirittura retrocesso all’11 dicembre.

Fin dal medioevo si erano studiati vari metodi di riforma, ma soltanto nel Cinquecento si trovò una soluzione abbastanza soddisfacente. Leone X se ne occupò consultando astronomi e matematici, e facendo pubblicare vari scritti sull’argomento durante il quinto Concilio Lateranense (1513-1517). Ma fu Gregorio XIII a decidere la riforma il 24 febbraio 1582 con la bolla Inter gravissimas, secondo il progetto di Luigi Giglio approvato da matematici di tutta l’Europa.

La riforma riconduceva l’equinozio di primavera, secondo quanto aveva decretato il concilio di Nicea, al 21 marzo, togliendo 10 giorni al mese di ottobre del 1582, dal 5 al 14 incluso. Poi, calcolata l’eccedenza del calendario giuliano in 3 giorni ogni 400 anni, si stabilì che fra gli anni secolari fossero bisestili soltanto quelli perfettamente divisibili per 400, e cioè il 1600, il 2000 e così via. Ma nemmeno il calendario gregoriano è perfetto perché recenti calcoli sulla lunghezza dell’anno tropico hanno accertato che è di giorni 365, 242.214 con una diminuzione di 61 decimilionesimi di giorno ogni 100 anni rispetto al nostro anno legale.

La riforma gregoriana si è oggi imposta quasi dappertutto in Occidente, ma all’inizio venne rifiutata da molti Stati, soprattutto da quelli a maggioranza protestante perché proveniva dall’odiata Roma papalina. Negli Stati riformati della Germania e dei Paesi Bassi venne adottata soltanto nel 1700, e in Gran Bretagna addirittura nel 1752. D’altronde oggi ancora i cristiani d’Oriente, per una malintesa fedeltà alla propria tradizione, adottano ancora il calendario giuliano sicché le loro feste sono sfasate rispetto alle nostre.

NOTE: (*) Giorni aggiunti da Giulio Cesare, tranne che per aprile in cui fu aggiunto il VI Kalendas per evitare la ricorrenza delle feste Floralia.

Da CALENDARIO, di Alfredo Cattabiani – Oscar Mondadori

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