Ma, su questa concezione dell’arte monastica, nata allorché un secolo fa furono scoperti gli affreschi delle regioni meridionali d’Italia — i primi del Medio Evo conosciuti dopo quelli di S. Sofia di Kiev —, è intervenuto da ultimo e in maniera molto convincente Cyril Mango.
Rilevato che quest’arte, «che è qualificata anche come orientale o provinciale, è caratterizzata da uno stile piatto, dalla frontalità delle figure che sono pesanti e tozze, dal linearismo che prende il posto del modellato, dall’assenza di movimento, ma anche dall’espressività che si traduce soprattutto nei grandi occhi dei personaggi», e che è all’opposto di quella «che si suole chiamare di preferenza costantinopolitana o aristocratica, un’arte elegante che prosegue le tradizioni ellenistiche del modellato, del movimento e della prospettiva», ha dimostrato con una serie di stringenti argomentazioni che non si può parlare di «una scuola monastica di pittura nel senso che vi fossero ‘ateliers’ esercitanti il proprio mestiere all’interno del monastero» , ma che si deve ammettere la contemporanea esistenza di un’arte colta e di un’arte popolare, fatto del resto non nuovo nella storia, e affine a quello che si riscontra nello stesso mondo bizantino per la lingua — insieme arcaicizzante e demotica — e per la letteratura.
«In fondo quel che si suole chiamare lo stile monastico — egli precisa — non è uno stile unico; non è altro che la semplificazione dell’arte metropolitana dello stesso periodo o del periodo leggermente anteriore. Infatti il linearismo, la pesantezza, la rigidità, la mancanza di volume, la predilezione per l’ornamento sono fenomeni troppo diffusi perché possano caratterizzare uno stile definito; indicano piuttosto un livello verso il quale l’artista provinciale bizantino sempre gravitava. E quando si guardano le cose più da vicino, ci si accorge che la pittura arcaicizzante della Cappadocia (IX-X secc.) non è altro, in ultima analisi, che una degradazione d’una pittura più raffinata che ci è nota attraverso i manoscritti miniati dello stesso periodo, come il Cosma Indicopleuste della Vaticana o il Giobbe della Marciana, mentre la pittura cappadocia del secolo XI riflette già un’altra tappa dell’arte della capitale, e le pitture severe del monastero di S. Neofita di Cipro svelano la stilizzazione molto audace propria dell’epoca dei Comneni. L’arte dei Paleologhi che, per motivi storici, ha conosciuto una minima espansione e che era troppo ampollosa per venir ridotta a formule rigide, ha subito tuttavia nelle province balcaniche e a Creta una degradazione analoga » .
È, questo, un importante punto di arrivo nel dibattito svoltosi in parallelo e in consonanza con gli studi del più generale e complesso problema della civiltà bizantina nel Mezzogiorno d’Italia, i quali pure non hanno avuto sempre un indirizzo univoco.
Fonte: ARTE BIZANTINA IN CALABRIA E IN BASILICATA, di Mario Rotili, Di Mauro Editore
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