L’arrivo dei Greci

SIBARI – Parco archeologico

È solo con l’arrivo dei Greci, comunque, che l’Italia meridionale fa il suo ingresso nella storia. Grazie ai grandi storici, come Erodoto, Tucidide e altri meno famosi ma non meno importanti, cominciano ad aprirsi degli squarci nel velo di tenebre che ancora avvolgeva la nostra terra. Le informazioni che da essi ricaviamo, tuttavia, benché preziosissime, di volta in volta devono trovare verifica e conferma sulla base di altri dati, soprattutto quelli ricavati dalla ricerca archeologica.

Per il periodo più antico, quello miceneo e submiceneo, di cui troviamo notevoli tracce anche nei miti che diedero vita all’Odissea di Omero e ad altri nóstoi, “racconti del ritorno”, oggi perduti (di cui nel nostro territorio, come abbiamo visto, rimaneva forse traccia nel misterioso heróon di Draconte), abbiamo solo notizie leggendarie e fantasiose di misteriosi e non stabili insediamenti.

Questi dati, tuttavia, non vanno trascurati o, peggio ancora, liquidati frettolosamente come frutto della fertile immaginazione di un poeta. Recenti studi, ad esempio, concordano nel collocare in Calabria, sulla costa tirrenica, il sito di Temése (Temesa), menzionato nell’Odissea (libro I, v. 184), che è da considerarsi il dato toponomastico più antico relativo alla penisola italiana, noto attraverso le fonti letterarie, e che è anche, insieme al nome antico della Sicilia (Sikanie), l’unico toponimo dell’Italia antica presente nei poemi omerici.

Nell’Odissea Temesa è il luogo dove Mente, re dei Tafi, si reca a commerciare metalli, cercando bronzo in cambio di ferro, e dove ci sono uomini che parlano altre lingue (ànthropoi allóthrooi). Vengono messi in rilievo, dunque, due aspetti: in primo luogo quello dei rapporti commerciali, in particolare l’approvvigionamento dei metalli che, come ormai è accertato, costituiva uno dei principali moventi delle frequentazioni egee dell’Occidente all’inizio del primo millennio, a testimonianza di uno scambio materiale legato allo sviluppo “tecnologico” (bronzo contro ferro); in secondo luogo quello dei contatti linguistici che si iscrivono in un quadro più ampio di rapporti acculturativi.

Interessante, a questo proposito, è il termine allóthrooi, usato per indicare gli indigeni che parlano una lingua diversa, perché implica una considerazione più neutra rispetto a barbarci, termine con cui si indica una diversità linguistica più netta.

Nonostante questi illustri precedenti pare che, in età storica, i primi Greci a giungere in Italia furono di stirpe ionica e provenienti dall’isola di Eubea, in particolare Eretriesi e Calcidesi, che fondarono le più antiche colonie dell’Italia meridionale e della Sicilia (Pitecussa, Cuma, Naxos, Reggio).

Ben presto, però, anche gruppi di Achei, dalle loro sedi originarie sulle coste settentrionali del Peloponneso cominciarono ad inviare in Italia loro colonie, composte di uomini semplici e rudi, veri e propri pionieri in grado di rendere produttiva una terra ancora aspra e selvaggia e di difenderla energicamente dagli assalti degli indigeni, che non erano certo disposti a farsela portar via senza lottare. La regione da cui provenivano, l’Acaia, montuosa e povera, non aveva contribuito in modo particolare alla nascita e allo sviluppo della civiltà greca, ma un destino completamente diverso attendeva le città achee dell’Italia meridionale: la loro, infatti, sarà la storia di un rapido e impetuoso sviluppo che le porterà a raggiungere un livello straordinario di prosperità e splendore, e che, nel caso di Sibari, diventerà addirittura proverbiale.

Di pari passo, però, come nelle tragedie greche, ad una eccessiva fortuna seguirà un’altrettanto smisurata rovina: grandi sventure e calamità, infatti, colpiranno queste città, che non godranno a lungo questa immeritata prosperità.

La più antica delle colonie achee, dunque, fu Sibari. La nuova polis sorse alla fine dell’VIII secolo in un territorio parimenti favorevole all’agricoltura come al commercio: l’ampia pianura alle sue spalle, la valle del Crati, e la sua posizione al centro del golfo di Taranto segnarono la sua vocazione in entrambe le attività. In particolare la necessità di sfruttare il ricco entroterra, unitamente alle miniere di rame di Temesa e alle saline di Lungro, spinse i Sibariti a mettere sotto il proprio controllo questo vasto territorio con la fondazione di subcolonie, collegando le coste tirreniche a quelle ioniche mediante importanti vie interne.

Le coste del Tirreno inferiore – a differenza di quelle ioniche, per gran parte ripide e a strapiombo sul mare o dai sottili arenili stretti tra monte e mare, ove s’aprono poche, piccole pianure alluvionali formate dai rapidi corsi d’acqua declinanti dall’interno montuoso ed aspro – fra il VII e il VI secolo a.C. videro il fiorire di numerose città, per lo più piccole, centri indigeni o subcolonie, in diversa misura toccate dalla cultura greca delle città madrepatria della costa ionica.

Fonte: SCALEA ANTICA E MODERNA, di A. Vacchiano – Salviati

Foto RETE

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