EMIGRANTI, la messa prima di partire

 

Quaranta emigranti calabresi, prima di partire, si ritrovano in chiesa con tutta la comunità  paesana tra preghiere e lacrime. Da EMIGRANTI, di Francesco Perri 

Quando squillò la campanella, per annunziare che s’iniziava la messa, entrarono in gruppo, con un grande scalpiccio di scarpe nuove, i quaranta emigranti, e si andarono a inginocchiare tra il pulpito e il coro, davanti a un grosso armadio, nel quale era chiusa la statua di S. Vito.

Vestivano tutti abiti nuovi di fustagno o di panno volgare, dal taglio goffo e angoloso, rialzati e gonfi sul petto come corazze. Alcuni portavano cravatte di cotone a nodo fisso, i cui gancetti uscivano fuori, dietro la nuca, oltre il collo della giacca. Molti avevano la semplice camicia, dal colletto rivoltato e fermato sul petto con due bottoncini di vetro; e sullo sparato mostravano dei ricami : ramoscelli, raggere, piccoli fiori con un forellino in mezzo e i petali intorno, simulanti quelli della margherita. Erano i ricami delle fidanzate. Parecchie di quelle camicie erano quelle del giorno di nozze. E tutti quegli ornamenti singolari, e quegli abiti nuovi, stirati di fresco, angolosi, non ancora aderenti alla persona, con la rigidezza delle colle originarie, avevano per le donne e le famiglie di quegli emigranti la bellezza e la austerità di un assetto di guerra.

I volti di quegli uomini, anche dei più giovani erano angolosi, dai tratti fortemente marcati, come per una vecchiezzaprecoce; i capelli ruvidi, arruffati nei contadini, pettinati a ciuffo in qualche artigiano, con un cipiglio un po’ lugubre; e tutti gli occhi erano tristi, selvaggi e insieme spauriti, occhi adusati al dolore e al patimento cotidiano come alla luce del giorno.

II parroco uscì dalla sagrestia e si avanzò, col calice nelle mani, verso l’altare; fece un inchino, poi salì rapidamente; lo depose, sfogliò il messale un istante, e ridiscese per iniziare la messa. Un sibilo si produsse allora sull’altare. Una tenda azzurra che copriva una nicchia nel centro si mosse, si raccolse sopra un lato, e improvvisamente, in mezzo ai ceri accesi e ai flabelli di fiori splendenti, apparve bella, serena, misericorde una Madonna, la Madonna di Pandore, col Bambino ritto sulle ginocchia.

Fu un bisbiglio di gemiti, di sospiri, di preghiere, presto interrotto dal suono dell’organo. Mastro Genio con la sua vocetta agra, esile come quella di un galletto, intonò il Kirie. Alla sua si unì immediatamente la voce di Gèsu Blèfari, una bella voce tenorile, con inflessioni malinconiche, tutta svolazzi, acciaccature e variazioni, come se volesse adornare il canto religioso di tutte le grazie di un canto di amore.

Nell’udirlo Mariuzza appoggiò le mani alla spalliera di una sedia che le stava davanti, chinò la testa sulle mani e pianse.

Non ostante la letizia del canto, nella chiesetta gravava un senso tragico di attesa, il senso tragico delle grandi calamità. Speranze e timori, lacrime e preghiere, invocazioni segrete e vóti ardenti si confondevano e si elevavano a Dio. I Pandurioti si erano raccolti in quella chiesetta che ricordava loro le date più belle, le più gaie e le più tristi della loro vita, come in un luogo di pace e di speranza. Essa rappresentava per quei contadini il solo luogo di elevazione spirituale, il posto dove la vita bestiale e dolorosa di tutti i giorni trovava una tregua nella preghiera e nel canto; dove il loro cuore guardava in se stesso, vedeva le sue piaghe, e con accorata fiducia le mostrava a Dio.

La pena cotidiana dei corpi e delle anime trovava conforto in quelle quattro mura, tra quelle imagini venerabili di Santi e di altari, che parlavano di un’altra esistenza, e legavano le cose della terra a quanto di bello e di poetico le circondava: il cielo coi suoi aspetti di grandezza infinita e di grazia, e il sole, e le nubi e i vènti e le stelle, e tutte le cose più vicine a Dio. A quella si ricorreva nei dolori domestici, quando sulle famiglie si abbattevano le sciagure, quando tremava la terra minacciosa, e quando la temperie si svolgeva impropizia ai raccolti. Si andava a implorare il pane del corpo e inconsapevolmente si rinveniva il pane dell’anima. Con quanta fede e quanta speranza vi ricorrevano ora, dopo una triste delusione, dopo un disastro che aveva distrutti tanti beni e lasciate senza tetto tante famiglie; ora che i propri figli, i mariti, i fratelli, la loro carne viva, era sul punto di partire, di andar lontano, in un paese sconosciuto, per cercare lavoro e pane! Non era il Signore che voleva quello? Tutto procedeva da Lui e a Lui ricorrevano per affidarglisi interamente.

Finita la messa il parroco volle recitare anche la litania dei Santi : poi benedisse i partenti e rientrò in sagrestia.

Allora la Palamara, una vecchia contadina dalla voce formidabile, intonò la Salve Regina.

L’intermediario era scomparso. Il popolo parlava direttamente con Dio, invocava la protettrice dei poveri e degli afflitti:

Dio vi salvi, o Regina,

siete matre universale;

per vostro amor si sale

in Paradiso.

Alla voce della vecchia seguirono quelle squillanti delle donne più giovani, poi quelle gravi degli uomini, e un coro perfetto con accordi di terza e di quinta riempì la chiesa.

I primi due versetti erano cantati in fretta, con una specie di recitativo sommesso, saliente, una invocazione appassionata. Al terzo il canto si allargava, come un volo di colombe che abbiano preso quota, e piegava con accordi semitonali, lenti, accorati nell’ultimo emisticchio, pieni di una malinconia consapevole, forte e rassegnata.

La voce delle giovani si spiegava piena, limpida, dal petto, come uno zampillo d’acqua sorgiva: le più attempate cantavano in tono minore. Qualcuna lacrimava cantando, col cuore pieno d’angoscia.

In alto i finestroni, scossi dalle raffiche di un vento di ponente che si era levato all’improvviso, facevano tintinnire i loro vetri, dietro i quali si vedevano passare nel ciclo mattinale delle nuvole, incessantemente. Sull’altare erano state spente tutte le candele. Solo la lampada in cornu epistulae splendeva col suo lumicino giallo.

Voi siete gioia e riso

di tutti i tribolati,

di tutti i disperati

unica speme.

Quanto dolore e quanta rassegnazione in quel canto! Il cuore vi si abbandonava con la voluttà con cui ci si abbandona all’impeto delle lacrime, per sfogarsi, assaporandone l’amaro aroma. Quaranta uomini erano pronti ad abbandonare le loro case, le mogli, le fidanzate, i figliuoli, per recarsi in un paese lontano e sconosciuto, fra gente che parlava un’altra lingua, in cerca di lavoro e di pane. Il bisogno, la povertà della loro terra, li cacciava verso l’esilio forzato, come le prime nevi sulla montagna avevano cacciati verso il piano i pettirossi e le capinere, quei teneri uccellini che pigolavano, scivolando tra le siepi, su le cime degli alberi spogli, con quei piccoli gridi lamentosi che accrescevano la tristezza dell’inverno veniente. Qualcuno di quelli che partivano non sarebbe ritornato più tra i suoi parenti, sarebbe caduto lontano, nella lotta per l’esistenza, sepolto in qualche miniera, o stroncato dai congegni terribili delle grandi officine. Il bacio che avrebbe dato alla sua donna piangente, ai suoi bambini, meravigliati di vederlo allontanarsi in una maniera insolita, sarebbe stato l’ultimo, e il giorno dei morti i suoi cari, per ricordarlo, avrebbero guardate le lontananze misteriose dell’orizzonte.

E quanti sarebbero ritornati integri nelle membra e nell’anima? Quanti avrebbero trovato il pane, quanti avrebbero fatto fortuna? E nelle loro famiglie cosa sarebbe avvenuto durante il loro esilio? Avrebbero, al loro ritorno, ritrovati quelli che lasciavano nella loro casa; la loro donna avrebbe mantenuta la sua fedeltà; e la fidanzata li avrebbe attesi con la dolce trepidazione dell’amore costante? Tutto era affidato alla speranza e alla fede in quel Dio a cui ubbidiscono i vénti e le tempeste; che governa, come fa delle stagioni, i cuori e gli affetti degli uomini, e presiede alle loro fortune.

Ma in quel canto non era solo la tristezza del forzato esilio, il dolore di dover lasciare i propri cari, o quello di vederli partire lontano, verso paesi misteriosi, verso oscuri pericoli.

Prostrata nella preghiera, quella folla dimenticava a poco a poco, insensibilmente, le difficoltà contingenti, le avversità della vita cotidiana, i bisogni, le miserie che inviliscono l’anima. Il suo dolore si allargava e si approfondiva.

Come in un’acqua tranquilla, dal punto dove cade un sasso e la turba, si partono dei cerchi concentrici, che si allargano fino ad abbracciare tutta la superficie, così dall’angustia della loro vita il dolore si allargava, abbracciava un poco del dolore di tutti gli uomini, assumeva un senso universale.

A voi sospira e geme,

il nostro afflitto cuore

in un mare di dolore

e di amarezza.

Ah, sì! non solo la loro esistenza era travagliata, ma tutta la vita del mondo era un mare di dolore, in ogni condizione, in ogni angolo della terra. Su tutto l’essere gravava quella tristezza misteriosa che ne costituisce l’essenza più intima, e che più direttamente pare proceda da Dio.

Il canto diventava accorato e solenne. Molti di quegli uomini che solevano cantare per abitudine quella invocazione piena di abbandono alla Vergine, sentivano ora che essa diventava un vero e proprio grido del cuore, e un supremo conforto dissipava a poco a poco la loro amarezza, una calma serena si apriva davanti alle loro anime come un’aurora.

Rocco Blèfari, appoggiato alla pila dell’acqua santa, prendeva parte a quel coro a bassa voce, con gli occhi gonfi di pianto, per non dare un tono di angosciosa desolazione al canto del popolo orante.

Egli aveva un cuore nero nero! Esso gli diceva che i suoi figli non avrebbero avuto fortuna, che sarebbero stati vinti nella lotta intrapresa. Non sapeva rendersi conto del perché quella voce lugubre gli parlasse dentro, ma essa parlava come una voce di naufrago nella tempesta, e nel mare del dolore e dell’amarezza egli si sentiva naufragare.

Da EMIGRANTI, di Francesco Perri –  Garzanti

Un romanzo intenso, che si legge con viva partecipazione

FOTO: Rete

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