La cerimonia di Sega-la-Vecchia

La Vecchia era un pupazzo di legno che spesso teneva tra le mani il fuso e la conocchia, ed era riempita d’uva e di fichi secchi, castagne, carrube, mele, pere con sapa e cotognata: piccoli regali che, segata, concedeva ai paesani prima di essere bruciata sul rogo.

Era apparsa già in un altro periodo considerato come «capodanno», con il nome di Befana: simbolo dell’anno vecchio che moriva offrendo i semi da cui sarebbe cresciuto l’anno nuovo.

La Chiesa aveva avversato a lungo l’usanza che, conficcata nel mezzo della Quaresima, sembrava interromperne il carattere purificatorio e penitenziale. Poi cercò di ritualizzarla in chiave quaresimale, come testimonia Michelangelo Buonarroti il giovane, membro dell’Accademia della Crusca, nella sua Cicalata:

«A costei… una volta… nel tempo della Quaresima… venne voglia di un salsicciotto bolognese e, procacciatolo tutto intero, crudo crudo, in una volta sel trangugiò. Fu scoperta alla Mozzalingua, la quale in breve processatala, la condannò ad essere segata viva, e perché le Fate le addimandassero in dono la vita di lei, non vi fu modo a scamparla dalla mala ventura. Venuta dunque la mattina che ella doveva morire, chiese a coloro, che a guastar le menavano, acciocché ella non fosse riconosciuta, che di alcuna cosa la volessero trasfigurare: i segatori, tolta la spugna, e tuffatala in quel calamaio, dove e’ dovevan tigner le corde per far la riga e segarla direttamente, la le fregarono al viso, e un vestire, che pareva da monaca, indosso le misero; e poscia, fattane una tacca, i denti appiccativi alla sega, segarono lei… senza niuna misericordia» .

Il processo alla Vecchia era interpretato come il processo alle orge gastronomiche del Carnevale, e dunque esaltazione della purificazione e dell’astinenza quaresimale; ma anche memento mori, impersonato nella «befana», come testimoniano questi versi anonimi degli Scherzi morali per la vecchia segata in Cremona:

Donne, voi gite altere Che la vostra beltade il mondo adori E con pronto volere Quasi vittima a voi s’offrono i cori: Ma pazze se ‘l credete, Che tutt’oro non è quel che  risplende. Cangia le sue vicende Il tempo e alfin vi coglie nella rete.

Ed ecco in un baleno Di vostra lieta fronte Turbato il bel sereno, E solo a scherni e a onte L’egra vita soggiace, e ‘l fasto altero Altro non è che un soffio, un’ombra, uno zero.

Di là dalle interpretazioni moralistiche il rito di Sega-la-Vecchia, come quello dell’albero di Carnevale, era ed è dove ancora sussiste – una cerimonia di passaggio verso l’equinozio di primavera, verso il nuovo anno. Vi si celebra senza esserne più coscienti la morte del vecchio anno, ovvero della «comare secca», della Vecchia Madre Natura da cui rinascerà la giovinetta Natura, cioè l’anno nuovo: simbolo della rinascita spirituale di chi sa liberarsi della vecchia pelle rinascendo «nuovo».

Si potrebbe obiettare che il rogo dell’albero e della Vecchia non sono dissimili dal ciocco natalizio, simbolo presso gli Ittiti del Destino che governa il cosmo; ed effettivamente dalle faville dell’albero si traggono pronostici per il futuro. Difficile trovare il bandolo della matassa perché le commistioni di riti e credenze possono aver modificato la tradizione originaria. V’è però un’usanza che dovrebbe offrirci per lo meno un indizio: anche a San Giuseppe, il 19 marzo, si accendono fuochi con vecchi mobili, ovvero si brucia l’anno passato con i peccati, le disgrazie, i dolori.

DA CALENDARIO, di A. Cattabiani – Mondadori

FOTO: Rete

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