La via della seta in Calabria

Un grosso debito verso i monaci bizantini, poi, la Calabria contrasse per l’immissione della sericoltura. Come vuole la tradizione, furono proprio due monaci orientali, inviati da Giustiniano in Cina per apprendervi i segreti dell’arte della seta, che ne ritornarono recando con sé, nascosti nei loro bastoni, alcuni bozzoli. È probabile che per la Calabria, fin da quel lontano Medioevo, si sia aperta la lunga avventura dell’arte della seta, che avrebbe portato questa regione alla ribalta della notorietà internazionale.

Noi ne abbiamo notizia solo a partire dalla metà del secolo XI, grazie a un brébion (catalogo, registro) pertinente alla metropoli di Reggio: ne ricaviamo che, intorno al 1050, il tema di Calabria accoglieva 24000 piante di gelso, la cui foglia (semplicemente detta, fronda, secondo la terminologia calabrese rimasta fin quasi ai nostri giorni) era destinata all’allevamento del baco: la coltivazione del gelso, la bachicoltura, la trattura della seta cruda e le successive fasi di lavorazione, fino alla tessitura e al completamento del ciclo, restarono a lungo una prerogativa delle aziende familiari contadine, che spesso, operando su ordinazione nelle prime fasi del ciclo (stricu o séricu, nel dialetto di Calabria), e cioè nella gelsicoltura, nell’allevamento e nella trattura, operazioni alle quali partecipava tutta la famiglia, poi procedevano a commercializzare la materia prima così ottenuta. L’esportazione interessava anche mercati lontani[…]

Da secoli, la produzione della seta aveva in Calabria una forte specializzazione; tutto il settore poggiava sulla disseminazione produttiva nelle campagne, m virtù di un’arboricoltura che vedeva primeggiare il gelso, della cui fronda veniva nutrito il baco, con un ciclo di allevamento e sfruttamento, su base domestica – uomini e donne, vecchi e bambini -, che arrivava fino alla trattura e torcitura della seta cavata dai bozzoli; mercanti e incettatori, poi, passando di casa in casa, affidavano altro lavoro alle famiglie contadine e lo scambiavano con beni o contanti, ritiravano la materia prima che esse avevano prodotto nel frattempo, e poi riversavano i semilavorati alla città, dove entrava in giucco tutto il complesso lavoro di affinatura, pulitura, tessitura, tinteggiatura, rifinitura ecc., con maestranze di prim’ordine tenute a standard sorvegliatissimi.

Frontespizio degli Statuti dell’Arte della Seta, Catanzaro, XVI sec.

Una buona parte dell’aristocrazia terriera di Catanzaro era ben inserita nella produzione e nello smercio di velluti, damaschi, organzini, rasi, taffetà, e simili (tipici prodotti del capoluogo); mentre quella di Cosenza sembrava scarsamente applicata a questo tipo di attività e più incline allo sfruttamento della vicina Sila (con sbocchi lenti e difficili verso la costa tirrenica di Paola, e infinitamente più lunghi, se pure agevoli, verso la valle del Crati che portava fino alla lontana Sibaritide, con scali di poco rilievo); e quella di Reggio, invece, era assai impegnata nelle attività di commercio per mare, e quindi di sovvenzioni e compartecipazioni alla produzione di agrumi, essenze, cassettame ecc., oltre che di vere e proprie contrattazioni di assicurazioni, noli, reclutamenti di manodopera per le navi, e così via: e, dunque, con alternative di produzione assai forti se pure impegnate su settori diversi da quello tradizionale della seta, nella quale, dunque, la palma spettava – e da secoli – a Catanzaro, almeno in termini qualitativi: vino e agrumi per Reggio, liquirizia, legname e soprattutto pece per Cosenza, potevano essere probabili sostituti in caso di arretramento della produzione di seta.

Di questa capacità di sostituzione si ebbe bisogno ben presto. Lungo il Settecento, all’ampliarsi della domanda per tessuti destinati a vestire una popolazione continentale in crescita, l’antica manifattura di Calabria non era più in grado di rispondere: la lana vi era di bassa qualità (spiccava il cosiddetto arbàsciu, orbace), laddove la seta era prodotto diffusissimo ma allo stato di materia prima, e solo nelle città maggiori veniva trasformata in bene finito di alto pregio, destinato a una domanda di ambienti raffinati (cortinaggi, parati e coperte in damasco; velluti a pelo alto ecc.): tanto che, ad esempio, nelle donazioni e nei testamenti, dove si rispettava la gerarchia dei valori unitari, i vediti di seta catanzarese venivano subito dopo gl’immobili e i gioielli. Si tenga presente che, secondo le informazioni dei contemporanei (come il cronista D’Amato), nella sola Catanzaro, nel 1670, i telai erano mille: la quale cifra, rapportata al numero degli abitanti – intorno a diecimila -, denotava almeno una famiglia su due applicata alla produzione tessile. Senonché, l’accresciuta domanda di ceti nuovi, emergenti ma senza sovrabbondanza di mezzi, da una parte, e, dall’altra, la vittoriosa concorrenza del cotone (che in Calabria era coltivato in scarsa quantità, e in modi rudimentali e altamente inquinanti), rese tutta l’attività tessile della regione assolutamente non concorrenziale, soprattutto dopo che, a partire dal secondo Settecento, ogni privilegio fiscale alle sete calabresi, e catanzaresi in modo particolare, rese la produzione decisamente antieconomica: già nello stesso anno della sospensione della franchigia della seta un diarista catanzarese del tempo, Giovan Battista Mojo, notava che dell’arte ormai «si prognosticava l’ultima rovina ». Il che significava, in prospettiva, il crollo delle attività industriali cittadine, e della gelsicoltura nelle campagne.

Da STORIA DELLA CALABRIA,  di A. Placanica – Donzelli

FOTO: Rete

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