Ormai l’epica risorgimentale s’era conclusa, e l’alfabetizzazione e la coscrizione obbligatoria tendevano – adesso sì – a unificare quella che si presumeva essere stata la nazione italiana. I quadri di Andrea Cefaly, forse il maggiore dei pittori calabresi dell’Ottocento, partecipe in prima persona dei moti risorgimentali, garibaldino e deputato al nuovo parlamento italiano, testimoniano assai bene il tentativo operato in quegli anni dai settori più avvertiti delle classi colte calabresi di inserire la regione nell’ampio flusso della nazione italiana moderna. I problemi della Calabria tendevano in quel contesto a perdere specificità, inserendosi nel quadro della imminente «questione meridionale». Ed ecco che dalle prime innocenti pagine di un libro divenuto celeberrimo, il Cuore del De Amicis (che qui si è scelto per la sua alta significatività e per la sua enorme diffusione, verificatore e divulgatore capillare della nuova ideologia nazionale), lo stereotipo del calabrese veniva sancito per sempre, ma, appunto, come stereotipo; e la stessa immagine della Calabria risultava accolta nella coscienza nazionale come terra di una lontananza diversa, protagonista e partecipe del grande moto, e quasi simbolo di quella diversità lontana che era chiamata a concorrere al grande programma ideale segnato in quel libro, la concordia nazionale:
Il ragazzo calabrese (22, sabato). Ieri sera, mentre il maestro ci dava notizia del povero Robotti, che dovrà camminare un pezzo con le stampelle; entrò il Direttore con un nuovo iscritto, un ragazzo di viso molto bruno, coi capelli neri, con gli occhi grandi e neri, con le sopracciglia folte e raggiunte sulla fronte; tutto vestito di scuro, con una cintura di marocchino nero intorno alla vita. Il Direttore, dopo aver parlato nell’orecchio del maestro, se ne uscì, lasciandogli accanto il ragazzo, che guardava noi con quegli occhioni neri, come spaurito. Allora il maestro gli prese una mano, e disse alla classe: Voi dovete essere contenti. Oggi entra nella scuola un piccolo italiano nato a Reggio Calabria, a più di cinquecento miglia da qua. Vogliate bene al vostro fratello venuto di lontano. Egli è nato in una terra gloriosa, che diede all’Italia degli uomini illustri, e le dà dei forti lavoratori e dei bravi soldati; in una delle più belle terre della nostra patria, dove sono grandi foreste e grandi montagne, abitate da un popolo pieno d’ingegno e di coraggio. Vogliategli bene, in maniera che non s’accorga di essere lontano dalla città dove è nato; fategli vedere che un ragazzo italiano, in qualunque scuola italiana mette il piede, ci trova dei fratelli -. Detto questo s’alzò e segnò sulla carta murale d’Italia il punto dov’è Reggio Calabria. Poi chiamò forte: – Ernesto Derossi! – quello che ha sempre il primo premio. Derossi s’alzò. – Vieni qua, – disse il maestro. Derossi uscì dal banco e s’andò a mettere accanto al tavolino in faccia al calabrese. – Come primo della scuola, – gli disse il maestro, – dà l’abbraccio del benvenuto, in nome di tutta la classe, al nuovo compagno; l’abbraccio dei figliuoli del Piemonte al figliuolo della Calabria -. Derossi abbracciò il calabrese, dicendo con la sua voce chiara: – Benvenuto! – e questi baciò lui sulle due guance, con impeto. Tutti batterono le mani. – Silenzio! – gridò il maestro -, non si battono le mani in iscuola! – Ma si vedeva ch’era contento. Anche il calabrese era contento.
Oserei dire che anche noi potremmo essere spinti a sentirci contenti. Come che sia, la buona Italia dell’Ottocento borghese – che ha allevato in sé tante magagne, ma anche tanta probità e tanti «buoni sentimenti», e in cui il Mezzogiorno s’è lentamente innalzato a forme di progresso vero e reale – ha percepito la sua funzione proprio in quei termini. Al di là d’ogni accorgimento retorico, è un passo che suscita emozione, e che fa riandare ai giorni alti e drammatici che videro la ricomposizione dell’Italia in società unita e moderna, con le sue ombre e le sue luci, certo, ma così lontana dal fossato che – con feroce responsabilità, soprattutto della classe politica meridionale – s’è andato poi scavando tra il Nord e il Sud d’Italia, con un particolare spirito di rivalsa verso la Calabria, ai cui figli si va rendendo più difficile farsi riconoscere come fratelli dagl’italiani del settentrione.
Non vi sarebbe quasi bisogno di commento a quel brano del De Amicis, dunque. Eppure, nonostante le positive osservazioni fatte poc’anzi, è un passo da leggere e rileggere, con attenzione alle singole parole e immagini: passo supremamente significativo in quanto supremamente inintenzionale. Non è facile trovare un’altra pagina che possa offrirci, così in sintesi, le lontane sedimentazioni dello stereotipo del calabrese (le montagne, le foreste, la lontananza della Calabria, la gloria, l’ingegno e il coraggio dei suoi abitanti) e i nuovi approdi del nesso Calabria-Italia (i calabresi un tempo uomini illustri, e ora forti lavoratori, e buoni soldati; l’abbraccio tra un geloso Piemonte e una Calabria sospettosa, il Risorgimento unificatore). Il porro unum della concordia tra gl’italiani, però, è così insistito, così retoricamente e pareneticamente asseverato, che la stessa vibrante pagina di De Amicis non può non sottintendere una malcelata condizione di fatto diametralmente opposta. Se il maestro Perboni ha bisogno di agitare lo spauracchio dell’indegnità civile per chiunque offenda il piccolo calabrese, e se l’accoglienza nella scuola ha bisogno di tante formali solennità (ma il Direttore ha sussurrato qualcosa nell’orecchio del maestro…), è segno che il ragazzo calabrese – simbolo dell’umanità meridionale, espressa al massimo della significazione – almeno per il momento non è ancora accettato: come italiano egli può, anzi deve essere accettato, ma per ora, come calabrese, non lo è. Nelle successive pagine del Cuore, il ragazzo calabrese continuerà a non avere un nome, e nemmeno s’identificherà in qualche tic o segno distintivo, come di solito usa fare De Amicis per la sua abusata tendenza alla caratterizzazione fisiognomica dei ragazzi protagonisti: il ragazzo calabrese avrà il suo Leitmotiv in se stesso e resterà individuato solo con la sua patria di provenienza (quindi col passato di una terra diversa, non con la sua personale identità attuale). Rispettato, certamente, mai protagonista. E questo è altrettanto importante: appunto, alla Calabria – bella ma lontana – la nuova Italia può offrire rispetto, e finanche simpatia, ma non parità.
Ma che cosa è, che cosa fa, quel ragazzo calabrese nella Torino del 1883? Su di lui, sull’accoglienza che lo aspetta, che cosa ha bisogno di dire il Direttore all’orecchio del maestro, e in tutta segretezza?
Certamente quel ragazzo è figlio di emigrati, figlio di una terra ingrata a cui l’unità nazionale non è riuscita a dare un pane onorato, e della quale, anzi, ha per più aspetti aggravato i problemi dell’esistenza. E anche l’emigrazione sarà uno dei detonatori del pregiudizio anticalabrese, per cui l’intervento riequilibratore di De Amicis si rende necessario. A conclusione del moto risorgimentale, sono i problemi di una non facile convivenza tra etnie, economie, tradizioni diverse. E, alla fine, a prevalere non sarà già quella calabrese: prezzo duro, fatto anche di lacrime e sangue, ma sull’altare di un progresso civile complessivo che solo gli stolti (e stoltamente nostalgici) continuano a negare.[…]
Da STORIA DELLA CALABRIA, di Augusto Placanica – donzelli editore
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