
In “MALEDETTO SUD” Vito Teti cerca di smontare i tanti luoghi comuni che circolano sui meridionali. Uno ci descrive come “oziosi e lenti”. Teti ne parla nel secondo capitolo. Quando lo lessi mi commosse. Mi sembrò che per la prima volta venisse difesa la dignità dei miei genitori, che hanno speso la loro vita, lavorando duramente, per strappare il necessario ad una terra dal ventre sterile.
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Camminavano a passi veloci nella notte. Il loro parlare e chiamarsi ad alta voce faceva parte della mia fonosfera infantile. Il paese mandava suoni e vita all’alba. Passavano le donne e gli uomini, con i loro animali, il cane, l’asino, le pecore, i maiali e raggiungevano Vanta, il luogo di lavoro, dopo due o tre ore di cammino. Facevano un lungo viaggio da scuro a scuro, da buio a buio, dall’alba a tramonto avvenuto, per un pugno di olive, qualche fascio di legna, un po’ di granturco e di fagioli con l’occhio che crescevano nelle zone sabbiose. Durante il giorno mangiavano spesso soltanto erbe bollite la sera prima, senza olio e senza sale, dette pajuni, e un tozzo di pane nero, un pasto che ti restava nella gola, nel cannarozzo. Non c’era stagione in cui stavano fermi, giornate intere, tranne le feste comandate in cui non si partiva. Con il caldo e con il gelo, con l’afa e con l’acqua, con i figli ammalati e con un lutto recente. Era una gran corsa per la vita, contro la fame e contro la miseria. La sera, seduto sul gradino di casa o in giro per le rughe con i compagni, osservavo tornare queste figure erranti, che salutavano, sorridevano, si auguravano la buona notte parlando del domani.
Si fermavano alla fontana di Dorico, poco prima l’ingresso in paese nella zona in cui abitavo. Vicino all’antica sorgente era sorta una moderna fontana in cemento costruita dai quacqueri americani arrivati con il piano Marshall.

Davvero era tutta una corsa quella che vivevano le figure di un universo errante. I braccianti stagionali dal mio paese, a maggio-giugno, si recavano nel Crotonese per pochi panetti di farina di grano; i pastori salivano dalle marine ai colli a maggio-giugno per scendere a ottobre-novembre; i ciucciari raggiungevano paesi e centri di tutta la regione compiendo viaggi di giorni: tornavano, il tempo di fare riposare l’asino e ripartivano. Un mio parente racconta spesso che non vedeva mai suo padre e che ha il ricordo di un’ombra che arrivava di notte e ripartiva di notte. Non c’era tempo da perdere. I musicanti del mio paese: contadini, braccianti, artigiani, commercianti suonavano fin da piccoli uno strumento e « arrotondavano» dentro la banda musicale i loro piccoli guadagni. Raggiungevano i luoghi lontani delle feste e dei pellegrinaggi prima di raggiungere le Americhe. Passavano veloci e colorati gli ambulanti, i venditori di stoffe e di «robe belle», i «capillari», i marmittai, le donne che scambiavano le mele con un goccio di olio, e gli zingari e gli uomini con le mucche, soprattutto nei periodi estivi delle feste. Economie itineranti di un universo errante. Corrado Alvaro, già negli anni Trenta del Novecento, quando osserva i paesi in dissoluzione per l’emigrazione e l’arrivo della modernità, scrive che un mondo tradizionalmente in fuga era diventato un mondo mobilissimo, popolato da figure inquiete che si spostano con le loro bisacce e i loro fagotti, anche per dei brevi tratti, come fossero membri di una «tribù nomade». Erranza e stanzialità, partenza e restanza, erano i due volti di uno stesso universo.
Osservavo quel mondo al crepuscolo nel momento in cui esplodeva definitivamente. La sera, quasi ogni sera, in una grande utilitaria si stipavano intere famiglie, madre, padre e cinque-sei figli che partivano per il Canada o per il Nord Italia. L’emigrazione era una speranza, ma era prima ancora un lutto, un cordoglio prolungato. Partivano quelli che poi nelle città sarebbero diventati Rocco e i suoi fratelli nel film di Visconti, ma anche nei luoghi della partenza si assisteva alla dispersione, a un impoverimento culturale e di saperi. Gli effetti di un secolo di partenze li scorgiamo oggi nei paesi e centri storici vuoti, con le case chiuse e cadenti, nel paesaggio ferito, nel territorio a rischio anche perché vittima di abbandoni e di cementificazioni. Più si svuotavano i paesi e più si costruiva. Più diminuivano gli abitanti e più aumentavano le case: vuote quelle antiche, vuote quelle nuove e incompiute.

Chiudevano case e intere rughe. Gli anelli ai muri dove venivano legati gli asini diventavano insperato gancio per legare le corde nei nostri giochi. Era un privilegio (o una sfortuna?) di chi restava. I bassi, dove dormivano persone e animali, erano chiusi. La portella tenuta sempre aperta, anche quando la gente di casa era fuori, adesso veniva divelta per costruire carri di legno. Era la fine di un mondo per la ricerca di terra e di pane, per fuggire dalla fame e anche dalle prepotenze. Fatica, patimento, fame sono state le parole che mi arrivavano dagli anziani quando ero giovane e segnano i miei ricordi ancora adesso. Non era una lamentela, non era un’invettiva: era la cronaca del passaggio dalla miseria all’abbondanza, dalla fatica al non far niente, dai patimenti al benessere. Il tutto rimpiangendo un universo di valori di riferimento. Qualcosa non tornava nelle loro migliorate condizioni di vita. Qualcosa era andato storto.
A dispetto di tante retoriche strumentali e di sterili e inautentiche nostalgie, non era bella la vita delle persone di quel mondo antico. «Non è bella la vita dei pastori in Aspromonte…», scriveva Alvaro in Gente in Aspromonte (1930), il suo racconto più celebre. La fatica, la dipendenza dalla natura, la precarietà, la soggezione ai padroni erano dati comuni alle comunità contadine di tutta Italia. Le Langhe di Pavese e di Fenoglio, quelle del mondo dei vinti di Nuto Revelli, la Fontamara di SiIone, Le terre del Sacramento di Jovine raccontano somiglianze, accanto ad inevitabili distanze.
IIMediterraneo, scrive Fernand Braudel (1992), «non è mai stato un paradiso offerto gratuitamente al diletto dell’umanità. Qui tutto ha dovuto essere costruito, spesso più faticosamente che altrove». Le persone, condannate alla fatica e alla sobrietà, solo in occasioni eccezionali, per qualche ora, potevano abbandonarsi ai bagordi. Braudel ricorda i campagnoli scheletrici ridotti alla fame nelle cattive annate, le carestie ricorrenti, le malattie, la malaria e la peste, «E ogni volta bisogna affrettarsi, approfittare delle ultime piogge di primavera o delle prime autunnali, dei primi o degli ultimi giorni buoni… »
Fame, fumo, cimici, vento, acque piovane, animali domestici e non, popolano i miseri tuguri di famiglie con non meno di dieci persone. Gli osservatori riconducevano debilitazione fisica e depressione degli individui a una fatica estenuante e ad una fretta inenarrabile, a impossibilità di riposo e di sosta, ad un’alimentazione carente.
Da “MALEDETTO SUD”, DI Vito Teti – Einaudi
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