VINI CALABRESI, tra mito e storia

L’amore per la propria terra spinge spesso a scambiare il mito per storia. In alcuni opuscoli pubblicitari si legge che il vino prodotto a Cirò è l’antico Krimisa che si offriva agli atleti di ritorno dalle Olimpiadi duemilacinquecento anni fa. Si sostiene che lo stesso Milone, vincitore di sei gare nella lotta, fosse un gran bevitore di Krimisa e, citando Teodoro di Ierapoli, riuscisse a ingurgitare dieci chili di carne, dieci di pane e tre boccali di vino.I greci approdati sulle coste dello Jonio chiamarono la Calabria «Enotria», «terra del vino», e si racconta che se ne producesse così tanto che a Sibari, per facilitarne il trasporto, furono costruiti «enodotti» che dalle colline arrivavano ai porto.

È difficile credere che Milone mangiasse venti chili di carne e di pane a ogni pasto, così come difficile credere che i Sibariti trasportassero il vino dalle colline al mare come si fa per metano e petrolio. Gli storici antichi scrivevano che Sibari era la colonia più fiorente della Magna Grecia ma le rimproveravano tutti i vizi e i mali del mondo. Elaboravano narrazioni inverosimili che potessero coincidere con la storia, attuavano un processo di storicizzazione degli eventi mitici, diventavano essi stessi creatori di leggende. Le esagerazioni di geografi, storici e filosofi sulla magnificenza della polis erano funzionali all’esigenza di demonizzarla. L’accusa nei confronti di Sibari era semplice ma efficace: i coloni greci che l’avevano fondata, in origine etnicamente puri, con il trascorrere del tempo, quando la città divenne crocevia di popoli diversi, diventarono impuri. Con le scelte politiche e di vita, i Sibariti avevano perso lo spirito greco: nella polis erano stati i Greci a trasformarsi in barbari e non viceversa. La decadenza delle città greche, dovuta a una perdita di posizione strategica e politica, obbligava gli storici a rivedere il concetto di patria e a idealizzare un’identità forse mai esistita.

È difficile anche credere che nel territorio di Cirò per oltre venticinque secoli gli abitanti abbiano coltivato lo stesso vitigno e bevuto lo stesso vino. Nel 1849, Pugliese scriveva che, verso la fine del Settecento, le uve nere di Ciro erano aglianica, santa severina, lagrima, canina e piede longa e le bianche greca e pizzutella. Lo studioso, tuttavia, precisava che nel giro di cinquant’anni i proprietari avevano introdotto decine di uve straniere da mosto e da tavola. Le bianche da tavola erano moscarella, malvasia, agostarica, vesparula, zibbibbo, sanginella, duraca, nocellarica, uva pietra, corniola, zinna di vacca, zuccaro, cannella e catalanesca; le bianche da mosto erano donna laura, greca, strumentino, scilibritto, guarnaccia, pizzutella, scricciaruola, e mantonico; le uve nere da tavola e da «stipa» erano damascena, duracina, pruna, cerasuola, testa di gallo, corniola, zinna di vacca, greco, ruggia o roja; le uve nere da mosto erano gaglioppo, piede longa, infarinata, lagrima, tenerella, sanseverina, canina e norella».

Rintracciare le origini di alcuni alimenti è come cercare un ago in un pagliaio. Un vino è autoctono quando il vitigno è nato, si è adattato e si è sviluppato in una precisa area geografica, ma è impossibile individuare le uve capnea, buconiate e tarrupia che, secondo Plinio, a Sibari si vendemmiavano in inverno inoltrato». Non abbiamo notizie sul vino lodato da Cassiodoro, robustissimo, limpidissimo, pastoso, fragrante all’odorato, detto palmiziano dall’odore di palma che lasciava in bocca e, quindi, diverso da quello volgarmente chiamato «vino dei Greci». Nel 1843, Filippo Parlatore, professore di botanica, scriveva che per la mancanza di erbari si sapeva poco o niente delle piante antiche e alle generiche descrizioni lasciate da alcuni autori si riportavano «non centinaja, ma migliaia di specie». Grimaldi precisava che non si potevano confrontare uve e olive presenti nella regione con quelle che avevano denominazioni latine e greche perché i nomi erano cambiati nel corso del tempo.1 vini di Calabria venduti nelle mescite romane agli inizi del Cinquecento avevano nomi per noi ormai sconosciuti: eropolio, castello albatio, montemauro, acciaiolo, lagniamo, policano, pesciotto, centola, sangianni, chiarello, falsamico e vernazza.

Alla fine dell’Ottocento, Pagano censiva centinaia di uve calabresi bianche, nere, mangerecce e da mosto.

Castrovillari contava 32 tipi di uve, Diamante 36, Orsomarso 32, Amantea 29, Carpanzano 42, Catanzaro 19, Nicotera 14, Filadelfia 19 e Parapodio 30. L’uva zibibbo, della quale esistevano diverse qualità, si chiamava zibbò a Catanzaro, duraca a Rogliano, adduraca a Diamante, zubebu ad Amantea, zibiddu a Fiumefreddo e cugliuni di gallu a Lattarico. Tumascina, giugnisa, liparota, cascarula, garrafella, zipruvitara, strunzu purcina, vesparola, cacciadebiti, manciaguerra, gnesa, barbarussa, quattrumanura, affricogna, raverusta, marrocca e tante altre denominazioni di uve un tempo note ai viticoltori, oggi sono totalmente sconosciute51.

Da “PANE NERO O FAME NERA”, di Giovanni Sole – Rubbettino

FOTO: Rete

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